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Un mondo da buttare
 
Il nostro è un sistema politico, economico e sociale, organizzato per garantire il ciclo produzione\consumo. Siamo sistematicamente sollecitati a buttare il vecchio e sostituirlo con il nuovo. Viviamo pertanto in un “mondo da buttare via” e non possiamo stupirci se questo fatto ha creato un sentire sempre più diffuso, un percepire anche gli uomini, alla fine, come qualcosa da buttare o cambiare, esattamente come gli oggetti. Il rispetto come fondamento etico scompare perché gli oggetti e le persone, in quanto assolutamente soggetti al cambiamento se non per necessità interna per bisogno esterno indotto, hanno perso il loro valore. È una tendenza collettiva cui è difficile resistere. Ciò che importa, infatti, è l’accettazione sociale e quindi l’identità, riconosciuta nel comportamento socialmente (sia esso definito da un gruppo ristretto od allargato) accettato e riconosciuto, è definita e misurata sulla frequenza del cambiamento e sulla quantità degli oggetti posseduti. Non è ipotizzabile che violenza, illegalità diffusa, arroganza, prevaricazione, siano espressioni e conseguenze di tali nuovi disvalori, che rappresentino il risultato delle nuove modalità di relazionarsi con le cose e con gli altri, che sollecitino comportamenti vissuti o barattati come indispensabili per mantenere vivo il sistema basato sulla spirale mortale del ciclo produttivo: bisogno (vero o falso, sentito o indotto)\produzione\consumo, nuovo bisogno\nuova produzione\nuovo consumo? Fino a quando lo si dovrà alimentare? Quale prezzo ancora si dovrà pagare?
A nessuno è dato di scegliersi il tempo in cui vivere perciò ciascuno ne è contemporaneamente figlio e padre. Non si può solo recriminare sulla perdita dei valori senza contemporaneamente chiedersi quali possano esserne le cause e studiarne eventualmente i rimedi. Tutti, a diversi livelli e gradi, ne siamo responsabili. Evghenij Evtuschenko sosteneva che vediamo più lontano solo perché siamo nani sulle spalle di giganti. Vale ancora la sua affermazione? Davvero vediamo più lontano, o ci stiamo guardando solo i piedi ed abbiamo perso di vista l’orizzonte? Certo, quanto quotidianamente succede e come resoconto, quasi fosse un perenne bollettino di guerra, leggiamo sui giornali, non lascia molto spazio alla formulazione di teorie ottimistiche su questo nostro mondo né autorizza a prefigurare orizzonti migliori. Senza bisogno di scomodare terrorismi di diversa natura, tragedie dovute alla fame, alle malattie, alle catastrofi naturali, violenze e fatti criminosi che, come al solito, si preferisce leggere in un’ottica di eccezionalità piuttosto che come segnali di evidente e diffuso malessere sociale, è sufficiente anche solo guardarsi attorno nel nostro banale vivere quotidiano, per capire che qualcosa non sta proprio funzionando nei rapporti tra gli uomini e tra questi e le cose. A chi, ad esempio, non è capitato di sentirsi trasparente al passaggio di un gruppo di ragazzi all’uscita di scuola? L’indifferenza, e quasi l’invisibilità, con cui si è percepiti, segnano con chiarezza l’interesse nei confronti di nessun altro all’infuori di sé. Se non si fa in tempo a scostarsi, si viene travolti dal gruppo o colpiti dagli zaini e, se pure si finga di non sentire le urla e le volgarità indirizzate reciprocamente, reputandole consone ai tempi, bisogna affrettarsi a scostarsi e lasciare il passaggio sul marciapiede, per non essere guardati con arroganza, prepotenza od essere apostrofati (“che c... vuoi?”) con atteggiamento di sfida se ci si oppone e si chiede rispetto per sé o per qualcun altro. Che altro sono questi, se non segnali di aggressività, violenza, intolleranza, fervido humus culturale di illegalità ed ulteriore violenza futura? Il rispetto delle istituzioni e della “res pubblica”, il riconoscimento dell’altro e dei suoi diritti, la relazione vissuta non come antagonismo ma come costruzione solidale, etc... sono tutti principi che conseguono ad una organizzazione della società basata su altre priorità e modalità di vita.
La misurazione di tutto, persone e cose, su parametri commerciali o commerciabili, è diventato il nuovo imperativo categorico (altro che “il bene per il bene” e “il giusto per il giusto”, con buona pace di Kant!). “Pecunia non olet” dicevano i romani e noi, loro eredi, dimenticando tutti gli altri valori trasmessi dalla classicità (bisognerebbe forse ciclicamente rileggerli, visto che abbiamo la memoria corta!), di questo principio abbiamo fatto tesoro e guida, rinforzando e legittimando sempre più il concetto che non puzzi neppure alcuna azione finalizzata ad ottenere questo bene supremo (altro che virtù e valore o lealtà e coraggio, questi li lasciamo a chi si pasce ancora di utopie!). Abbiamo posto il denaro, pertanto, come misura di tutto, come valutazione di noi stessi e degli altri, come bene supremo di riconoscimento identitario. La nostra identità non è più basata su un comune luogo di nascita, ma sul possesso. Non le medesime tradizioni, dunque, non la condivisione di gioie e dolori, non la lingua materna delle uguali nenie infantili, ci permettono di riconoscerci, ma le stesse marche di scarpe o di camicie, le macchine ed i cellulari, le vacanze esotiche e gli orologi. Se l’identità è data dall’insieme dei bisogni e dei desideri programmati dal mercato, dunque, se l’approvazione ed il riconoscimento del valore personale è misurato sul denaro e la sua spendita, come ci si può stupire delle azioni criminose volte al raggiungimento di tali beni? Quando non si riesca o non si sia capaci o non si possa ottenere l’identità, proposta ed imposta come modello, attraverso mezzi percorribili e facili, perché meravigliarsi del ricorso ad altri sistemi? L’illegalità come metodo capillare e diffuso di operare, la mancanza di rispetto delle persone quando non della vita, la prepotenza del diritto e l’ignoranza del dovere, il disprezzo sia del pubblico che del privato non sono forse solo l’altra faccia della medaglia? Sono tutti comportamenti ascrivibili ad un diffuso senso di inappartenenza, ad un profondo misconoscimento del senso del diritto altrui, all’abitudine, oramai sempre più radicata, ad interrelazioni così inautentiche da tradurre le proprie potenzialità in atteggiamenti distruttivi anzi che in risorse costruttive. Ogni essere umano ha un suo modo di esprimersi non soltanto naturale e spontaneo, ma anche, in gran parte, condizionato e prodotto dall’adattamento all’ambiente relazionale in cui vive. Questo non è frutto soltanto degli insegnamenti formali che riceve, ma più spesso delle azioni, dei gesti, delle parole, delle immagini, cui magari si dà poco o nulla peso, che ci pare si esauriscano nel momento del compimento e che invece influiscono e lasciano tracce molto di più dei bei discorsi o degli interventi formalizzati. Mi chiedo e domando a chi legge: quanto si pensa possa incidere fare discorsi sul valore della vita, spronare al rispetto degli altri, organizzare corsi formativi sulla legalità, sul senso civico o quant altro, se poi le regole (oramai del tutto prive di parametri etici) del mercato spingono i ragazzi ad acquistare video-giochi in cui il punteggio è calcolato sul numero di pedoni investiti e uccisi, se il nutrimento individuale quotidiano proposto dai “media” è zeppo di violenza nelle immagini, negli atteggiamenti di prevaricazione ed intolleranza, nelle parole volgari e rozze, nelle sceneggiature commerciali giocate sulla banalità di mediocri, quando non oscene, storie senza alcuno spessore narrativo, emotivo, intellettivo? Si può certo rispondere che è solo una rappresentazione virtuale del reale, non è la realtà e non può con questa essere confusa. È vero, ma solo se si sa discernere la realtà dalla finzione.Si devono possedere strumenti interpretativi e critici di decodificazione e di analisi, perché le immagini e le comunicazioni, di qualunque natura esse siano, possano essere gestibili e controllabili, altrimenti diventano lentamente habitus mentale, linguistico, gestuale, culturale in genere, che porta ad essere ed esprimersi in certi modi piuttosto che in altri. È di questi giorni il dibattito sull’indice di ascolto; se lo si è seguito con attenzione, si sarà notato come, senza neppure un velo di pudore, si sia ammesso che le misurazioni statistiche sugli ascolti (i numeri e le quantità sono oramai l’incubo di tutti a tutti i livelli) condizionano totalmente i programmi che nessuna considerazione di altra natura può aver peso o incidenza sulle scelte. Il profitto determinato dalla pubblicità vince e detta legge. È chiaro allora che il pubblico, prima ancora di avere valenza come target di riferimento rispetto all’età ed ai gusti, ne ha uno assolutamente prioritario che lo identifica come consumatore dei prodotti pubblicizzati, e ciò indipendentemente dal fatto che quei prodotti possa permetterseli o meno. Per essere riconosciuto come appartenente al gruppo dei compratori, l’obiettivo di riferimento è il consumo del prodotto di questa o quella marca, lì si misura l’identità di ciascuno. Quali metodi si utilizzino per raggiungerlo è evidentemente secondario. Mentre da più parti si insiste a discutere sull’importanza della salvaguardia dell’identità di lingue, tradizioni e culture, appannaggio di pochi eletti che possiedono gli strumenti per rifugiarsi nella nicchia protetta, la nuova cultura costruisce per i più un’identità massificata da cieco consumista, che, con la solita ipocrisia, riproviamo con le parole e sollecitiamo con i fatti. La riconquista di atteggiamenti legalitari, rispettosi, solidali può forse raggiungersi con questi presupposti? Nessuna giustificazione alla violenza certo, ma nessuna giustificazione neppure per il mostro che la produce!
NUMERO /4
Anno 2002, n. 4
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