Giolitti (allora ministro del tesoro) e Crispi, che si erano serviti dei finanziamenti di quella banca a fini indebiti, avevano tenuto segreti i risultati dell’indagine, e anzi Giolitti aveva fatto nominare senatore, da presidente del Consiglio, il governatore della Banca Romana, Bernardo Tanlongo. Le conclusioni dell’inchiesta vennero poi pubblicizzate alla Camera dal deputato radicale Napoleone Colajanni nel dicembre 1892, il quale riuscì a dimostrare l’ampiezza delle collusioni tra mondo finanziario e ceto politico. Questa situazione costrinse alle dimissioni Giolitti, che, minacciato d’arresto, si rifugiò in esilio in Germania (una vicenda con qualche punto di contatto con quella dell’ex presidente socialista Bettino Craxi).
Ma anche il delitto Matteotti, come è stato recentemente messo in luce da alcuni importanti lavori dello storico Mauro Canali (si veda la voce “delitto Matteotti” nel Dizionario del fascismo, a cura di Victoria de Grazia e Sergio Luzzatto, volume primo, appena pubblicato da Einaudi ) fu una vicenda dove, accanto al movente politico (legato al famoso discorso del deputato socialriformista del 30 maggio 1924 alla Camera) vi fu una concausa affaristica, connessa ai primi anni della vicenda fascista, quando il movimento di Mussolini, oramai al governo, necessitava di finanziamenti.
Il governo fascista infatti, nel marzo del 1924, aveva firmato un accordo segreto con la compagnia americana “Sinclair Oil”, che avrebbe garantito alla società americana, a condizioni estremamente favorevoli, il monopolio della ricerca petrolifera del sottosuolo italiano. Ci fu, come documentano le fonti archivistiche, un consistente passaggio di denaro dalle casse della Sinclair Oil al partito fascista, grazie anche all’azione di potentissime lobbies; Matteotti aveva intenzione di denunciare in parlamento, dopo averlo già fatto sulla rivista “English Life”, l’oscura vicenda, e per questo venne assassinato da Dumini e compagni.
Resta il fatto che mai come in questi ultimi anni gli intrecci fra questioni giudiziarie e politica hanno caratterizzato la vita pubblica italiana. Le deliberazioni del governo Berlusconi in materia di giustizia (specie per la decisione di assegnare una “corsia preferenziale” a certi provvedimenti di cui, francamente, i cittadini non avvertivano la priorità, specie nei primi mesi di governo) hanno suscitato molte perplessità. Probabilmente, questo è stato il primo governo della storia repubblicana ad aver assegnato tanta importanza alle questioni giudiziarie proprio nella prima parte della legislatura, che è di solito quella legata al lancio delle riforme promesse in campagna elettorale. L’onorevole Previti, poi, è diventato l’emblema stesso di questa stagione di conflitto fra potere politico e giudiziario. La sua stessa fisionomia, del resto, non ha aiutato l’esponente di Forza Italia; senza scomodare Lombroso, è certo che per molti italiani la faccia dell’ex ministro della difesa non ispiri propriamente l’idea di giustizia e pulizia morale. Chi ha visto la puntata del 7 ottobre di “Otto e mezzo”, la trasmissione condotta da Luca Sofri e Giuliano Ferrara su “LA7”, con ospite proprio Previti, sarà rimasto perplesso dalle parole di quest’ultimo, specie quando il deputato azzurro ha sostenuto, davanti ai due imbarazzati conduttori, di non ritenersi un evasore fiscale semplicemente per il fatto di non esser mai stato indagato per questo reato, nonostante le sue dichiarazioni di qualche giorno prima al processo IMI-SIR non lasciassero dubbi in proposito (dichiarazioni che, per inciso, avevano suscitato l’indignata risposta di un opinionista come Angelo Panebianco, noto per le sue posizioni garantiste, che aveva invitato Previti a dimettersi da deputato). Insomma, si ha come l’impressione che qualche esponente della maggioranza si consideri legibus solutus, ritenendosi al di sopra della legge, e operando in Parlamento con una legislazione ad hoc per impedire eventuali processi a proprio carico (esiste forse per gli altri cittadini la possibilità di svincolare dai procedimenti penali in maniera così evidente? non si rischia di ledere il principio costituzionale dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge?).
Mercoledì 30 ottobre, poi, nel corso dell’udienza generale in Piazza S. Pietro, Giovanni Paolo II (citando Isaia 33,13-16) ha ricordato come «il Signore giusto e santo non può tollerare l’empietà, la corruzione e l’ingiustizia; egli si mostra sdegnato e in collera nei confronti dei malvagi», per poi aggiungere che «il credente s’impegna a condannare la corruzione politica e giudiziaria “scuotendo le mani per non accettare regali”, immagine suggestiva che indica il rifiuto di donativi per deviare l’applicazione delle leggi e il corso della giustizia». Certo non sono parole casuali, ma destinate a pesar come un macigno, benché non sia il caso di trascinare anche il Papa nel calderone della legge Cirami (anche se sempre l’onorevole Cesare Previti, excusatio non petita, si è affrettato a dire, passeggiando per i corridoi di Montecitorio, che non avendo fatto niente, era ovviamente d’accordo col pontefice.
Rimane, quindi, l’annoso problema del dibattito su etica, diritto e politica. Del resto, il problema della legalità nella gestione della cosa pubblica è una questione dirimente anche del mondo globalizzato. Pensiamo al nesso tra mercato, liberalizzazione dell’economia, giustizia. Secondo i fondamentalisti del mercato la privatizzazione ridurrebbe l’attività di corruttela dei pubblici funzionari che concedono appalti o procurano posti agli amici attraverso i meccanismi perversi della burocrazia statale. I fautori del liberismo economico pensavano che l’introduzione del mercato nei paesi africani, ma anche nella Russia post-comunista, avrebbe rilanciato l’economia; ma se il governo è corrotto, difficilmente la privatizzazione può risolvere il problema, anche perché il governo corrotto che ha mal gestito l’azienda di stato o è privo di una efficiente amministrazione, sarà lo stesso che gestirà la privatizzazione attraverso forme e pratiche illegali.
La corruzione, del resto, non disdegna di albergare anche nelle ricche sale del potere di molti stati dell’Unione Europea, dove, per scandali minori, importanti uomini politici hanno deciso di ritirarsi dalla vita pubblica, mentre in Germania, l’ex-cancelliere Helmut Kohl, l’uomo della riunificazione delle due Germanie, coinvolto in un’indagine di corruzione, si è messo a disposizione della magistratura senza gridare al complotto dei giudici rossi. Sembra di capire che la diatriba tra chi difende la magistratura e chi la attacca, tra chi inneggia alla stagione di Mani Pulite e chi la dipinge come un momento di giacobina tracotanza giudiziaria, riprenda sotto altra chiave quella lotta acerrima tra diverse tendenze che ha segnato la storia del Novecento italiano (idealisti-antiidealisti, fascisti-antifascisti, comunisti-anticomunisti). Siamo forse un popolo continuamente ispirato dalla dialettica? Probabilmente siamo solo immaturi, e la caratura del nostro spirito pubblico deve forse fare ancora dei grandi progressi rispetto a quella degli altri paesi europei.
Ma allora la questione giustizia è veramente “la linea del Piave” su cui il centro-sinistra” potrà gettare le basi per la sua rivincita elettorale? Nell’Ulivo convivono due strategie: la prima insiste sull’anomalia Berlusconi, che attraverso la legge sulle rogatorie internazionali, la depenalizzazione sul falso in bilancio, la legge Cirami, creerebbe di fatto un regime personale, fondato sull’illegalità. La seconda crede che siano altri i fattori che potranno incidere concretamente e far rivedere in negativo il giudizio degli italiani sull’attuale presidente del Consiglio, la cui immagine e credibilità appare molto più minacciata dalle scelte e dalla politica del governo in campo economico e sociale piuttosto che dalle sue disavventure giudiziarie. Certamente nelle democrazie liberali un’informazione pluralistica e indipendente dal potere politico ed economico costituisce la premessa vitale del consapevole giudizio dei cittadini, della formazione del consenso e del dissenso, delle scelte elettorali e più in generale di tutti gli orientamenti che hanno a che fare con la vita sociale. La concetrazione del potere nelle mani del nostro Presidente del Consiglio è sicuramente uno dei casi più significativi della “patologia dei sistemi democratici contemporanei”. Rimane però il dubbio che incentrare la propria opposizione esclusivamente su questa linea possa spostare ingenti consensi elettorali.
Forse non è tanto il conflitto d’interesse o il processo IMI-SIR che non piace ai cittadini, ma sono le scelte del governo su finanza, tasse, istruzione che appaiono in conflitto con gli interessi degli italiani.