Si dà per scontato che vi siano concetti generalmente condivisi: che la legalità sia condizione indispensabile per la pacifica convivenza tra i cittadini, che costituisca il complesso di regole che disciplina i rapporti tra i cittadini e tra questi ed i loro governanti, indicando i limiti del loro potere ed il controllo dello stesso, che sia una precondizione per lo sviluppo, e così via.
Nessuno si sognerebbe di mettere in discussione che la legalità è il requisito essenziale per l’esistenza di una società civile, ma, ciononostante, pare che in Italia, rispetto ai paesi del Nord Europa, si sconti un grave deficit di cultura della legalità.
In proporzione alla popolazione, vantiamo il maggior numero di tutori dell’ordine e di magistrati, ma vantiamo anche il maggior numero di reati a carico di ignoti, e cioè impuniti perché il loro autore non viene mai individuato. I conti non tornano, nonostante il notevole patrimonio umano impegnato a presidio e tutela della legalità e della sicurezza, dobbiamo prendere atto che la condivisione ed il rispetto delle regole sono più apparenti che reali e la stragrande maggioranza di coloro che violano la legge riesce a sottrarsi alla sanzione prevista.
È sintomatico di una certa cultura, o meglio, non cultura, quel che è accaduto nel Senato della Repubblica in occasione della votazione della legge Cirami. A fronte della vibrata protesta di alcuni Senatori, che, prove fotografiche alla mano, hanno dimostrato che diversi colleghi, oltre ad esprimere il proprio voto, votavano anche per gli assenti, modificando così l’esito della votazione, il Presidente del Senato ha sostenuto che era tutto regolare. Il fatto, gravissimo sotto il profilo della legalità, non ha suscitato l’allarme e la riprovazione generalizzata che ci si sarebbe aspettati in un paese civile.
Un impiegato o un operaio, se altri in sua vece dovesse firmare il cartellino d’ingresso ed uscita, per tentare di coprirne l’assenza, non solo verrebbe licenziato, ma potrebbe anche rispondere del reato di truffa. Mentre un Senatore della Repubblica, eletto dal popolo per espletare il proprio mandato legislativo (ben più importante del ruolo di un lavoratore subordinato e molto meglio retribuito), può sottrarsi al proprio compito, facendo esercitare il diritto di voto ad altri in sua vece, sostenendo con arroganza la normalità e legalità di simili condotte.
Ecco perché non possiamo non riconoscere un deficit di cultura della legalità e la mancanza di condivisione di principi etici che regolino tutte le attività, dalla più umile alla più alta.
La doppia morale, diffusa in tutto il territorio nazionale, è devastante perché rende fumoso ed incerto il confine tra i comportamenti rispettosi delle leggi vigenti e quelli che non lo sono.
In alcune regioni, e all’interno di quelle regioni in alcune zone, il deficit di legalità è notevolmente più marcato. Dall’assenza di cultura della legalità all’adozione di condotte illegali il passo è breve.
Già nel passato l’allarme per il diffondersi della criminalità nella Sardegna centrale aveva indotto il parlamento Italiano a nominare, con legge 27 ottobre 1969 n. 755, una commissione d’inchiesta che concludeva il proprio lavoro con la famosa relazione Medici. Negli anni successivi lo stesso Consiglio Regionale aveva sentito la necessità di indagare “sulla condizione economica e sociale delle zone della Sardegna interessate da particolari fenomeni di criminalità e di violenza”.
L’esistenza di un gran numero di latitanti ed il ripetersi ciclicamente del fenomeno criminale del sequestro di persona, negli anni ’70 ed ’80 giustificava l’allarme sociale e la necessità di individuare mezzi e modalità d’intervento idonei a restituire alla Sardegna, e in particolare alla provincia di Nuoro, un clima di normalità.
In verità i suggerimenti riportati nelle conclusioni delle due commissioni d’inchiesta sono state quasi totalmente disattese e le scelte economiche realizzate con i fondi del piano di rinascita (le famose cattedrali nel deserto) non sono riuscite a innestare nuova cultura nel tessuto sociale improntato all’economia agro pastorale.
Il fallimento dell’industrializzazione legata ai poli chimici ha semmai contribuito a destabilizzare la vecchia cultura senza costruirne una nuova.
Da qualche anno l’emergenza criminale non è più rappresentata dai sequestri di persona, ma dal diffondersi in modo abnorme del fenomeno degli attentati e dei reati contro la persona (omicidi e tentati omicidi) che affligge l’intero territorio isolano, ma che si concentra soprattutto in Barbagia.
Questo contesto colloca la Provincia di Nuoro, secondo quanto rilevato dalla Lega delle Autonomie Locali e dal quotidiano Italia Oggi tra le province a criminalità con caratteristiche particolarmente pericolose.
Ma curiosamente il fenomeno viene normalmente sottovalutato dai Nuoresi che traggono dall’esiguo numero dei reati così detti metropolitani (furti, scippi etc.) la convinzione che in questo territorio si vive una qualità della vita molto alta. Hanno favorito questa illusione anche alcuni organi di stampa che, nell’illustrare i dati sulla sicurezza, hanno omesso di indicare i parametri utilizzati. Ma la sottovalutazione della situazione di illegalità non è dovuta solo alla informazione incompleta e fuorviante. Infatti vi sono coloro che, pur consapevoli della gravità dei fatti, preferiscono minimizzare, per proiettare all’esterno un’immagine positiva del contesto regionale.
Ho sentito alcuni concittadini sostenere che i delitti commessi nella provincia di Nuoro costituiscono poca cosa rispetto ai reati commessi in altre province. Queste persone evidentemente non si sono mai prese la briga di controllare i dati statistici, naturalmente in relazione al numero degli abitanti. Un esame di questi dati avrebbe consentito di accertare che la provincia di Nuoro, per il numero degli omicidi e dei tentati omicidi commessi è inferiore solo a Crotone e Reggio Calabria (Il Libro Dei Crimini edizione 2001 – adnkronos LIBRI).
Ma serve mettere la testa sotto la sabbia? Non sarebbe più produttivo affrontare il problema e tentare di risolverlo?
Che dire? Dal 1989, data di pubblicazione della relazione della Commissione d’Indagine Regionale, le cui indicazioni come detto, sono state in gran parte disattese, manca un’analisi organica dei cambiamenti economici e sociali intervenuti in questi venti anni, così come manca un’indagine sull’evoluzione del fenomeno criminale che offra ad operatori e amministratori strumenti idonei per incidere nella società, modificando il trend negativo cui sembra destinata questa provincia.
Spesso, dalle persone operanti in questo territorio con compiti di tutela dell’ordine o di amministrazione della giustizia si sente dire che a Nuoro è impossibile perseguire i criminali a causa dell’omertà dei cittadini.
Ho riflettuto a lungo sulla bontà di questa affermazione e sono arrivata alla conclusione che si tratti di un luogo comune per giustificare le mancate risposte che tutori dell’ordine e magistratura dovrebbero dare alla popolazione nuorese.
L’omertà costituisce una forma di solidarietà propria della malavita. Una condotta attiva connotata da una sorta di condivisione e finalizzata ad ostacolare l’individuazione dei responsabili dei fatti criminosi.
In Barbagia invece il comportamento dei cittadini rispetto agli accadimenti delittuosi, purché non tocchino personalmente loro o i loro familiari ed amici, è semplicemente indifferente, passivo.
Questa indifferenza quasi sempre si traduce in neutralità nei confronti del trasgressore e della vittima.
A maggior ragione l’indifferenza si manifesta nei confronti di chi tenta di affermare il rispetto delle regole, spesso recepite come non esattamente coincidenti con i rapporti reali tra le persone e tra queste e le istituzioni.
Mi pare che un tale atteggiamento risponda, da un lato, ad una concezione fatalistica della vita, e, per altro verso ad una carenza di coscienza dell’esistenza di un interesse collettivo alla legalità che va al di là e al di sopra dell’interesse personale e di clan.
Ma forse anche questa è una lettura parziale del sentire delle genti di questa provincia.
Qualche anno fa sono stata invitata in una scuola media inferiore di un paese vicino a Nuoro per una conversazione sulla legalità con i genitori degli studenti.
Anche allora mi domandavo come può essere affrontato quest’argomento senza ricorrere al solito discorso del rispetto della legge e della necessità di respingere la deriva dell’illegalità, dell’importanza della solidarietà attiva perché gli onesti non debbano soccombere alle pressioni dei delinquenti.
Nonostante ritenessi e ritenga che senza una radicata condivisione della cultura della legalità questa provincia diventerà presto un deserto, allora, come oggi, avevo l’impressione di non essere capace di trovare le parole giuste per far comprendere ai miei interlocutori quanto sia urgente operare in tal senso.
Le parole ed i concetti usuali mi sembravano inadeguati, incapaci di rompere la corazza che impedisce di recepire le implicazioni negative, anche per il futuro dei figli, che scaturiscono dalla falsa coscienza dell’inesistenza del problema.
Ho quindi deciso di astenermi dal salire in cattedra, sembrandomi molto più importante e fruttuoso capire che significato avesse per i miei interlocutori parlare di legalità, anzi, impegnarsi per affermarne la cultura.
Dopo un’iniziale elencazione di luoghi comuni (la legalità è il rispetto delle regole), è emerso un quadro estremamente interessante.
Alla domanda quali siano le regole da rispettare, le risposte sono state articolate, molto diverse fra loro.
Questi genitori, tutte donne, pienamente convinte di improntare la propria vita all’assoluto rispetto delle leggi, parevano non rendersi conto che cedere a certe “usanze” rende più fertile il terreno su cui l’illegalità prolifica.
Per esempio: ritenevano perfettamente legale e giusto, nell’ipotesi venisse loro rubata l’auto, rivolgersi agli amici degli amici per rientrare in possesso della macchina, pagando a chi illegalmente la deteneva una somma per la restituzione, la così detta buona mano.
I dubbi manifestati da me e da alcune delle presenti inducevano le sostenitrici della buona mano a giustificare la bontà e l’economicità della scelta. Infatti l’esperienza personale insegnava che denunciare il fatto ed attendere il compimento del lavoro di forze dell’ordine e magistratura comportava perdita di tempo e di danaro. Raramente l’autore del furto viene identificato e, anche in caso positivo, prima che venga processato passa un sacco di tempo. Seppure poi dovesse essere riconosciuto colpevole e condannato, la vittima, che nel frattempo ha dovuto perdere intere mattinate in tribunale, non ottiene soddisfazione del proprio diritto violato.
Dai tempi della relazione Medici si dice che i sardi sono affamati di giustizia, ma gli organi addetti ad amministrare la giustizia sono in gran parte sordi a questa disperata richiesta. La giustizia è talmente lenta che diventa inefficace. A ciò si aggiunge una carenza legislativa. Nessuna garanzia è infatti prevista per rendere effettivo, non solo formale, il diritto al risarcimento dei danni della parte offesa.
Dunque, in un contesto di inefficacia della tutela della vittima del reato, è difficile che il cittadino, per aderire ad un concetto astratto di legalità, voglia sottoporsi a perdite di tempo e di danaro assolutamente infruttuose. È molto più semplice e meno dispendioso far sapere a chi di dovere che si è disposti a pagare per riavere il proprio bene.
Ma così agendo s’incrementano e si facilitano le opportunità criminali e noi saremo sempre costretti a sottostare al ricatto.
Condivido chi sostiene che è ora di smetterla di parlare di stato matrigna e liberare così da ogni responsabilità la società civile, i singoli cittadini, le amministrazioni locali, ed il governo regionale.
Ma la magistratura e le forze di polizia dipendono dallo stato e non dagli enti locali e purtroppo tutte le volte che le forze politiche ed il legislatore hanno discusso di riforme in questi settori hanno avuto presenti, più che l’interesse ad ottenere finalmente garanzia dei diritti ed efficienza del sistema, le eventuali ricadute elettorali e, in alcuni casi, la tutela di interessi personali.
Educare alla legalità significa anzitutto aiutare i cittadini a comprendere che una giustizia che non funziona favorisce esclusivamente i delinquenti ed è perciò necessario sensibilizzare le istituzioni perché provvedano a non lasciare vuoti nell’organico e, soprattutto, a riempirli con personale di elevata professionalità.
Tutti noi dovremmo rivendicare a gran voce: a) non un numero maggiore di forze dell’ordine, ma personale con formazione di intelligence e conoscenza del territorio, b) una normativa che attui il diritto penale minimo per rendere reale l’obbligatorietà dell’azione penale e perseguire i reati che suscitano maggior allarme sociale.
Solo una risposta giudiziaria che unisca garanzia, efficacia e immediatezza possono ridare ai cittadini fiducia nelle istituzioni, e solo allora si potrà a buon diritto pretenderne la collaborazione. Diversamente è praticamente impossibile ottenere la disponibilità a collaborare. Bisogna anche intendersi sul significato della collaborazione, che non necessariamente deve tradursi in delazione.
Qualche anno fa per un mio cliente che aveva subito numerosi attentati, le cui denunce erano state tutte rigorosamente archiviate, parlai con un sostituto procuratore il quale ebbe a dirmi che se il mio cliente non faceva il nome dell’attentatore, le indagini non potevano proseguire.
La vittima aveva regolarmente indicato l’unica direzione nella quale andava ricercato l’autore degli attentati, pur senza farne il nome. D’altra parte, non avendolo mai visto durante le azioni criminose, non aveva la certezza matematica dell’identità dell’attentatore, ma non solo, facendone il nome rischiava ben altro che i beni patrimoniali distrutti.
A chi spetta fare le indagini se non alle forze di polizia secondo le direttive del magistrato inquirente?
A che servono tante forze di polizia nel territorio se vengono perseguiti solo i malfattori colti sul fatto, o indicati da un confidente?
Mi è capitato anche di difendere un signore al quale, per aver denunciato un reato a cui aveva assistito con dei parenti, è stato contestato il reato di calunnia per aver denunciato un gruppo di persone tra le quali potevano essere individuati i responsabili. Con altro procedimento, per lo stesso fatto, gli è stato contestato il reato di favoreggiamento personale per non aver indicato esattamente nomi e cognomi di quelle stesse persone.
Da questi esempi è facile capire quanto sia lontana l’amministrazione della giustizia dal comune senso di giustizia.
La fiducia nelle istituzioni in una terra come la nostra va costruita pazientemente, dando un segnale costante della capacità di lavoro e della stretta legalità praticata dalle medesime istituzioni.
Dunque da un lato la sfiducia, spesso giustificata, nelle istituzioni, dall’altro lato la mancanza di coscienza del bene collettivo legalità che va al di là dell’interesse del singolo non aiutano a superare l’atteggiamento di neutralità delle nostre genti.
Ritornando ai miei incontri con le madri degli studenti, nel corso della conversazione è emerso anche un altro elemento di estremo interesse: la difficile convivenza tra la cultura ancora legata alle tradizioni e agli schemi comportamentali del mondo agro-pastorale e la nuova cultura, per lo più legata ai lavoratori del terziario, che non riesce ad emergere.
E qui vorrei parlare della mia esperienza con i giovani.
È quasi uno slogan richiamare in continuazione i paesi del malessere. Mi pare però che pochi si siano soffermati a riflettere perché i paesi dell’interno hanno come caratteristica principale un diffuso malessere che si estrinseca quasi sempre in atti di violenza.
Normalmente si sente dire che il malessere è originato dalla mancanza di lavoro e di prospettive economiche. Di conseguenza i paesi si spopolano e la violenza emerge con maggior vigore.
Ma le cose non stanno esattamente così. Paesi come Fonni ed Oliena, solo per fare qualche esempio, hanno pochissimi disoccupati reali, hanno sviluppato in questi ultimi anni un’imprenditorialità di tutto rispetto, eppure sono paesi dove si verificano attentati e fatti di sangue.
Dunque, come è già stato suggerito, non sono necessariamente le precarie condizioni economiche a far scattare l’emergenza criminalità.
Ragazzi intelligenti, belli e simpatici sono attratti, spesso inconsapevolmente perché non ne percepiscono il reale disvalore, da compagnie che durante le loro escursioni commettono con disinvoltura reati. Se vengono arrestati si guardano bene dal fare i nomi dei correi per un malinteso senso di onore al quale non possono sottrarsi se vogliono continuare a godere il rispetto e la fiducia della compagnia. Si trovano così, senza neppure rendersi conto, in un circolo vizioso dal quale difficilmente riescono a sottrarsi e che li porterà inevitabilmente alla distruzione della giovane vita.
Mi sono domandata il perché, e ho cercato di capirlo parlando con i giovani tutte le volte che me ne veniva data l’opportunità. Mi è parso che questi ragazzi, da un lato, non abbiano nel loro patrimonio culturale la consapevolezza del confine tra legalità ed illegalità, e, dall’altro lato, vivano una condizione in cui il bene ed il male e tutto l’esistente si trovano all’interno del gruppo di appartenenza (la così detta cricca).
Non sognano, non immaginano un loro futuro, non si pongono il problema di realizzare le loro aspirazioni per il semplice fatto che spesso non ne hanno. Alla mia domanda ma non pensi che così lasci che le circostanze, spesso negative, condizionino il tuo destino? Non pensi che potresti combattere per vivere una vita che ti offra opportunità e sentire l’orgoglio di aver costruito il tuo avvenire? La risposta è: tanto prospettive non ce ne sono; oppure: non ci ho mai pensato.
A me pare che questo atteggiamento del vivere giorno per giorno e del rifugiarsi, anche i giovani studenti maschi che quasi mai concludono gli studi, nel mito del passato, dell’identità e dell’abbigliamento tipico dei pastori, sia un desiderio di fuga dal mondo attuale, dalla fatica di farsi strada, di emergere, dalla competitività che sembra connotare anche in questo angolo di mondo ogni rapporto.
In fondo è molto più facile sottomettersi alle regole del piccolo gruppo, nel quale comunque si viene accettati e per diventare eroi basta non parlare.
Non si può chiamare questo atteggiamento omertoso, è semplicemente frutto di un’identità che non è più tale.
Si dice che i luoghi di educazione alla legalità sono la scuola e la famiglia. È anche vero, ma la legalità rimane una parola priva di significato se le istituzioni per prime non la praticano. Forse è necessario fare come per la costruzione delle lunghe gallerie, procedere contemporaneamente da una parte e dall’altra e convincere e convincersi che la legalità non è un optional, ma un bene necessario a tutti.
Gli attentati: da anni ormai questo territorio è funestato dal quotidiano verificarsi di atti intimidatori di diverso genere, diretti non solo agli amministratori pubblici e alle istituzioni, ma anche ai comuni cittadini. Credo che una tale quantità di attentati, nonostante il fenomeno si stia diffondendo anche nelle altre province, rimanga un primato negativo della Barbagia.
Anche in questo caso purtroppo manca una seria elaborazione dei dati che ci consenta di capire ed interpretare il fenomeno (il sociologo Marco Zurru ha fatto un lavoro di raccolta dati sulla base delle notizie tratte dal quotidiano “L’UNIONE SARDA”. La metodologia di ricerca adottata, troppo parziale, non consente di farvi pieno affidamento).
Alcune considerazioni si possono comunque fare sulla base dei dati che il Questore di Nuoro rende pubblici in occasione della festa della polizia.
Anzitutto, rispetto al totale, sono molto più numerosi gli atti intimidatori diretti ai comuni cittadini rispetto a quelli diretti ad amministratori ed istituzioni.
Che significa? Diventa semplicistica la lettura del fenomeno solo come risposta alle scelte dell’amministrazione. Agli Enti Locali sono ormai riservati compiti gravosissimi, senza la necessaria dotazione di mezzi, per cui è impossibile contentare tutti.
Il fenomeno a mio avviso è molto più grave ed assume caratteristiche di allarme sociale che mi pare in gran parte sottovalutato.
Se gli attentati colpiscono indifferentemente privati, istituzioni, amministrazioni locali, e da ultimo anche la chiesa, domando se questi non siano espressione di un nuovo modo di confrontarsi con l’interlocutore. Mi pare che il diffondersi degli atti di intimidazione sia sintomatico del prevalere a tutti i livelli dell’unico linguaggio della violenza che appare più efficace ed ottenere risultati immediati.
Anche in questo caso al fondo c’è la sfiducia nelle istituzioni e soprattutto nell’efficace funzionamento della giustizia. Ma c’è anche qualcosa di più: la caduta verticale del dialogo, del trasferimento delle rivendicazioni nella partecipazione e nella battaglia politica e, talvolta, la mancanza di trasparenza e della ricerca del consenso nelle scelte delle amministrazioni.
Le mie riflessioni sul tema non hanno, né possono avere completezza di esposizione e di analisi, dato che mi mancano gli strumenti del mestiere. Ho voluto comunque esprimerle nella speranza che si apra un dibattito vero e, soprattutto, che le amministrazioni dedichino un po’ dei fondi a loro disposizione per studiare i fenomeni di criminalità che affliggono questa provincia limitandone lo sviluppo.
Colgo l’occasione per sollecitare l’amministrazione comunale di Nuoro, l’amministrazione provinciale e la Comunità Montana n. 9, che hanno ricevuto da mesi un progetto per la raccolta ed elaborazione dati e conseguente indicazione di proposte operative sulla delinquenza minorile della provincia di Nuoro, redatto dai ricercatori della cattedra di diritto penale dell’università di Sassari.
Altro campo d’indagine va individuato nella raccolta ed elaborazione dati sugli attentati in provincia di Nuoro.
Infine la lotta alla criminalità e l’impegno a scardinare la cultura della violenza per instaurare quella della legalità, per avere successo deve avere come protagonisti, oltre alle forze dell’ordine e alla magistratura efficienti, la società civile, i partiti politici, la chiesa, le istituzioni e gli amministratori locali.