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L'Arcadia perduta
 
Nella notte profonda, Nuoro si stendeva percorsa da un vento gelido. Rotolava lontano un carro sul selciato. Non una voce. Due carabinieri in pattuglia, rigidi e annoiati, venivano su per il corso. Faceva quasi paura. (da Salvatore Satta, "Il giorno del giudizio").

Alla fine dell'800 la società sarda subisce un mutamento profondo, anche se molto lento: l'espansione dei grossi centri e un, seppur pallido, incremento della scolarità rivelano un maggior dinamismo e una chiara tendenza a uscire dall'isolamento, aprendosi e collegandosi con i circuiti esterni. Significativo è l'aumento, rilevabile dopo il 1870, dei giornali, dei libri e delle riviste che diedero vita a vivaci battaglie culturali, cui contribuì un'opinione pubblica sempre più curiosa e recettiva. Si può dire che larghi strati della popolazione urbana e, in maniera più ristretta, della borghesia rurale cominciarono a entrare in un mondo di idee e di fatti esterno ai ristretti orizzonti locali.
Fu un fenomeno che coinvolse tutta l'isola e che ebbe a Nuoro esponenti illustri: in quegli anni, infatti, fecero le prime esperienze letterarie Grazia Deledda e Sebastiano Satta. Proprio quella Nuoro di fine ottocento descritta da Salvatore Satta ne "Il giorno del giudizio", "città o borgo che fosse". Poeti, premi nobel, insigni avvocati e giuristi; forse troppo per un posto che "non era che un nido di corvi". E forse c'era una certa ironia, chissà se voluta, da parte di chi la definì Atene Sarda. Atene, il maggior centro di produzione culturale che il mondo antico abbia mai conosciuto, vivace palestra di dibattiti politici, in cui confluivano intellettuali da tutte le terre allora conosciute. Atene che condannò a morte Socrate.
La retorica dell'Atene Sarda è la stessa che ha generato la retorica del 28 aprile: è vero che noi abbiamo avuto un'Atene, tanto quanto è vero che i cagliaritani hanno fatto la rivoluzione per scacciare i piemontesi. Ho idea che ci siamo presi troppo sul serio. Forse aveva ragione Sergio Atzeni quando diceva che in Sardegna si ha la tendenza a rivisitare la storia e le nostre radici all'insegna del siamo bravi, belli e sfortunati, e se fossimo stati fortunati saremmo probabilmente grandi e gloriosi. I luoghi comuni vengono usati, spesso in mala fede, per colmare il vuoto e la desolazione culturale del presente. Non abbiamo bisogno di lontane arcadie da sognare e rimpiangere: la dimensione del mito appartiene alla letteratura, non alla storia e tantomeno alla realtà del presente. Una nuova generazione di intellettuali sardi, se mai riuscirà a venir fuori, dovrà risolvere il nodo che la vede condannata per forza di cosa ad essere marginale e periferica, costretta a vivere nel limbo, stretta tra le proprie radici e il desiderio inevitabile di confrontarsi con i problemi di una modernità sempre più omologante. Per essere vitale una cultura deve esporsi al rischio del mutamento, mentre si continua ad invocare lo spirito sardo, così come si aspetta dal cielo lo spirito santo, come un rimedio per guarire un presunto orgoglio nazionale ferito. Sembra che sia diventato sempre più difficile trovare qualcosa di stimolante da respirare insieme. Quello che manca non è il desiderio di riflettere, di porsi delle domande, ma un disegno culturale unitario, un progetto ideale che sappia aggregare le forze più vive della Sardegna. L'unica soluzione, per alcuni, è stata quella di rinchiudersi in tante piccole torri d'avorio, dove coltivare in ristretta compagnia i propri pur nobili interessi: una miriade di perfette e idilliache Atene sarde in miniatura, senza alcuna capacità di dialogo, non soltanto tra di loro, ma soprattutto con la società reale. Questa parcellizzazione della cultura è stata la manna per una classe politica che ha contribuito fortemente a rendere sterili le migliori energie culturali sarde, limitandosi a chiamarle a raccolta in occasione delle campagne elettorali.
Altro che Atene, questa è la rivincita di Sparta.
NUMERO /2
Anno 2002, n. 2
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