Non è facile fare qualche riflessione sui fatti dell'11 settembre: avanzare qualche distinguo o entrare in un ragionamento un po' articolato rischia di far passare chi vi si addentra come un simpatizzante dei terroristi (come è successo ingiustamente a Dario Fo), quasi che provare a riflettere (dopo essere partiti dalla condanna totale e assoluta su un crimine commesso contro il popolo americano ma anche contro l'intera umanità) rischi di rompere quel "siamo tutti americani" che è diventata la frase invalicabile in ogni discussione (ma eravamo tutti americani anche dopo la strage del Cermis? Forse dovremmo andare a rivederci i sondaggi successivi a quel drammatico avvenimento). Parimenti, dobbiamo stare attenti tutti, specie noi nipotini di "X-Files", nell'eccedere nelle fantasiose analisi dietrologiche succedutesi in questi giorni. Forse mai come adesso assume validità la frase "il sonno della ragione genera mostri". Mai come ora negli ultimi dieci anni si era sentito soffiare per il mondo un vento gelido di diffidenza e contrapposizione frontale di simile intensità.
Vediamo bruciare bandiere occidentali a Islamabad o nei territori palestinesi e coniare slogan anti-occidentali sull'onda del più aberrante fondamentalismo, così come sentiamo capi di governo occidentali lanciarsi in pericolose (un po' da nipotino di Houston Chamberlain e Gobineau) asserzioni sulla superiorità dell'occidente e sullo stato di arretratezza del mondo musulmano. C'è n'è abbastanza per preoccuparsi.
Negli anni novanta c'è stato chi teorizzava (riscuotendo un'inspiegabile fama) "la fine della storia", cioè la vittoria delle forze liberali e capitaliste occidentali di fronte alla disgregazione dell'impero sovietico, come momento in cui si sarebbero liberate nuove energie di progresso e di sviluppo. Non è stato così, e i fatti dell'11 settembre lo hanno rimarcato ancora di più.
In televisione vediamo giornalisti (?) chiedere ansiosi i particolari più raccapriccianti sui resti delle vittime delle "Torri gemelle"; esperti militari parlare di bombe e attacchi con i più moderni armamenti (in grado di provocare migliaia di vittime innocenti) con il sorriso ben stampato in faccia; donne musulmane, come quella italiana vista da Santoro il 25 settembre scorso, lanciarsi in ardite e sconvolgenti dichiarazioni fondamentaliste; vediamo avanzare un sentimento da "caccia all'arabo" e qualcuno già lancia messaggi di nuove crociate o peggio, sentiamo il vescovo di Como, Mons. Maggiolini, vescovo già in passato protagonista di dichiarazioni discutibili e intrise di uno spirito certamente poco cristiano, intervistato da Enzo Biagi, asserire di ammirare S. Francesco d'Assisi per le sue virtù di santo, ma sostenere contemporaneamente che non lo avrebbe mai voluto come ministro della difesa ( tutto questo mentre Giovanni Paolo II, il card. Martini e la comunità di S. Egidio invitano alla pace e al dialogo con i fratelli musulmani nel nome del rispetto reciproco). Se intorno al pittoresco Mons. Milingo si è scatenato un putiferio solo per un matrimonio fasullo e quasi comico, ci chiediamo perché nessuno dica niente su dichiarazioni così gravi.
Pochi sono le voci che richiamano invece alla necessità del dialogo interreligioso e al confronto culturale come antidoto più efficace contro ogni tipo di estremismo e i propositi guerrafondai di scontro tra "le due civiltà".
Uno dei pochi che si sia distinto (e non è la prima volta) è stato il medico, e fondatore di "Emergency", Gino Strada. Appena ha avvertito i venti di possibili rappresaglie occidentali contro Bin Laden e i Talebani in Afghanistan, si è precipitato in questa terra martoriata da 25 anni di guerra per prestare aiuto con le sue sapienti e esperte mani di chirurgo negli ospedali costruiti dalla sua Associazione e prevenire le sofferenze di migliaia di afgani e afgane. È andato in Afghanistan come sarebbe andato a New York se nella Grande Mela non ci fossero stati ospedali e il minimo occorrente per il pronto soccorso come capita invece da troppo tempo a Kabul.
Gino Strada ha raccontato alcune delle sue esperienze più drammatiche e commoventi in Afghanistan, in Iraq e nell'Ex-Yugoslavia in un bellissimo libro, "Pappagalli verdi" (cioè il nome con cui i vecchi afgani designano le strane bombe lanciate dagli elicotteri sui loro villaggi), edito da Feltrinelli. È un libro importante, che andrebbe letto e meditato nelle nostre scuole, e che dovrebbero leggere le persone con alti gradi di responsabilità politica.
Tutti siamo rimasti turbati l'11 settembre, sbalorditi perché abbiamo visto come la globalizzazione non sia solo new economy e Internet, ma anche mondializzazione dell'instabilità e del terrore.
Instabilità e terrore contro cui dobbiamo opporci, non con nuove crociate, ma con il dialogo e le ragioni della cultura.
Ciò che è palese è che il mondo non è stato in grado di gestire il mondo del post-guerra fredda, fatto non solo di nuove tecnologie, ma anche di innumerevoli problemi e contraddizioni. E forse sarebbe il caso di cominciare a riflettere sulla questione della proliferazione delle armi nucleari, e sul fatto che piccoli gruppi di terroristi o il dittatore di qualche staterello possano colpire con il nucleare e provocare stragi immani. Nessuno a questo mondo è perfetto: gli arabi conoscono il terrorismo come lo conoscono gli americani e lo conosciamo ancora di più noi europei. E per questo che sarebbe ora che la politica mondiale facesse un bel salto di qualità, a cominciare da una nuova definizione dei ruoli dell'ONU. Conservare vite e ricchezza in una dimensione collettiva diventa l'obiettivo strategico di un nuovo governo mondiale. La pace intesa in tutte le sue articolazioni non è una utopia, ma può diventarla se dovesse vincere la stoltezza di alcuni uomini.