Se la stupidità umana proseguirà nel suo cammino autodistruttivo, pertanto, soltanto gli scorpioni potranno salvarsi. Lo scontro sembra proprio quello tra stoltezza e arroganza, tra insipienza e intransigenza.
La logica quella dei nostri computer: innumerevoli relais che però sanno distinguere solo tra il sì e il no.
Il nostro pluralismo culturale e la nostra filosofia della complessità non serviranno a niente, se non ci consentiranno di tessere un tessuto comune, di restituirci un orizzonte di confronto e di intesa, di tralasciare il senso presuntuoso di superiorità culturale.
Il quadro mentale su cui disegniamo il nostro progetto esistenziale è appiattito su un registro economico-tecnologico: al massimo riusciamo a pensare ad una ipotetica pace tra creditori e debitori.
La sfiducia nella possibilità della costruzione di una rete solidale, nella direzione di un domani migliore per tutti, porta a guardare con diffidenza chi opera in tal senso (“ idealisti” oppure “sono tutte utopie” è facile sentir dire), a rinchiudersi in pericolosi etnicismi (fra non molto ci saranno contrapposizioni tra identità differenti sempre più ristrette, magari di condominio, visto che di quartiere, i ghetti dei portoricani contro quelli dei neri o degli asiatici, esistono già da un pezzo), ad osservare con diffidenza persino il proprio vicino, l’amico più prossimo, sentiti come possibili concorrenti nel perseguimento dei nostri obbiettivi, piuttosto che come eventuali sostegni o collaboratori.
È logico allora che il valore-rifugio diventa un io sempre più chiuso e piccolo. Né, d’altronde, potrebbe essere diversamente, data l’insicurezza crescente derivante dai nostri modi di vita, che non ci esortano a perseguire il comune vantaggio per tutti, ma ci costringono a cercare soluzioni personali per risolvere i nostri problemi contingenti, indipendentemente dal fatto che queste possano crearne agli altri o configgere con le loro necessità.
Le contraddizioni sociali e sistemiche, che interessano la collettività, vengono risolte, ovviamente da una piccola minoranza, per mezzo di soluzioni momentanee o attraverso una sorta di trovata biografica che costruisce una risposta effimera e non una rete comune sociale in cui tutti sono responsabili della collettività ed in cui tutti secondo le loro peculiarità si preoccupano di migliorarla.
Una comunità costruita sulle monadi sempre meno comunicanti, fiduciose esclusivamente nella propria forza di perseguire il proprio interesse, basata su spinte o paure individuali non può che essere perdente e non può che produrre effetti dirompenti e tragici.
È fondamentale tentare di restituire, ognuno nel suo ambito, il senso del valore ed il peso dell’opera di ciascuno nella costruzione, non del proprio individuale benessere (che comunque ne conseguirà), ma di una comunità migliore, partecipe e aperta, rispettosa delle differenze e ricca di queste, informata ed educata sulla complessità e quindi capace di selezionare sapere e informazioni, capace di superare insomma, attraverso la riconquistata partecipazione sociale e politica e l’assunzione di responsabilità singole o collettive, la mancanza di fiducia nel domani.
È evidente che prima bisogna eliminare i fattori che provocano le forti disuguaglianze sociali ed economiche, non solo per un buon senso di giustizia sociale, ma per la stessa sopravvivenza della nostra società.
Come farlo, rappresenta la sfida per tutti. Anche qui, oggi, noi tutti non possiamo esimerci dal fare la nostra parte. Non certo attraverso gli effimeri ed anestetici giochi circensi, non attraverso soluzioni-tampone per promuovere la propria immagine, non attraverso l’auto-referenzialità, ma solo attraverso un costante e quasi pedante lavoro di ricostruzione della cultura comunitaria e di riscatto del proprio primario ruolo, in una ottica collaborativa non competitiva, nella eliminazione o superamento della società dei privilegi e delle disuguaglianze di opportunità.
L’operazione di ricostruzione non è mai semplice. È culturale, politica, sociale ed economica: i campi sono interconnessi ed interdipendenti, se uno degli anelli non tiene, la catena si spezza.
La Sardegna, la nostra classe politica, la nostra città, le nostre organizzazioni culturali e sociali, il mondo economico, tutti, a tutti i livelli, chi più chi meno, sono responsabili della mancanza di capacità, impegno e volontà nella ricostruzione del tessuto sociale comunitario, della possibilità di credere in un futuro migliore, della liberazione dalla subalternità di pensiero e dal conseguente provincialismo che sempre condanna ad un atteggiamento di passiva accettazione e non aiuta a formare quello propositivo e creativo che invece consentirebbe insieme alla libera espressione della propria identità l’arricchimento della comunità tutta. La catena tiene se costruiamo degli anelli forti.
Farlo non è più procrastinabile. La scelta è infatti tra la nostra sopravvivenza con gli scorpioni e quella degli scorpioni senza di noi.