AVERROÈ
Averroè veniva chiamato un saraceno capitato nei villaggi della zona di San Tommaso Becket.
Lo straniero era un tipo scuro di carnagione, alto quanto uno qualunque della piana, con la pelle della faccia cotta dal sole e gli enormi occhi neri sempre sgranati, a significare un miscuglio di astuzia e meraviglia.
Il nome da filosofo, come quello dello scienziato arabo-spagnolo vissuto nel XII secolo, gli derivava dal fatto che si intendeva e sapeva di tutto: dalla medicina all’astronomia, dai discorsi su Dio alle leggi degli uomini.
Se c’era stato qualcuno capace di coniare quel nome, più per spregio che per sapere veramente le scritture e la dottrina, più per pazzia che per saviezza, era segno comunque che il saraceno, s’arabìu, qualche cosa doveva valere.
Averroè era comparso come in visione durante un abbacinato pomeriggio di luglio nel villaggio che sorgeva non tanto distante dai resti dell’antica Dure. Subito la fama era corsa.
Più tardi, quella gente e i loro pronipoti avrebbero scoperto i nomi e le vite vere e immaginarie di Aladino, Alì Babà e Sinbad. Adesso, agli inizi dell’Evo Moderno scoprivano e sperimentavano la fisicità del diverso, di uno che era apparso sulla punta di mezzogiorno come un fantasma e che si era poi trasformato in un uomo vero, in carne ed ossa.
L’impulso più immediato, dopo che i bambini si misero ad urlare spaventati dall’idea del moro, fu quello di ucciderlo o di scacciarlo a bastonate. Alla fine però prevalse l’accordo tra majorales di provare se il saraceno fosse risultato utile per certi servizi: come trasportare l’acqua dalla fonte di Abba Cana, i sacchi di grano alla macina di Carchéras, e pascolare poi le capre del paese.
Per anni e anni, Averroè, vestito con lo stesso caffettano del giorno in cui era arrivato, con lo stesso lacero turbante e con gli stessi sandali ai piedi, aveva percorso il suo calvario senza lamentarsi, senza rispondere alle contumelie, se non con quello sguardo di fuoco che mascherava la sua anima: una fluente barba nera nascondeva la faccia, la fronte iniziava ad essere percorsa da rughe. Averroè non si abituò mai all’inverno. Soffriva ancor di più quando passava sopra le pietre di gelo, caricato di pesi come un asino da soma. Vedendolo in quella condizione, nonostante nutrisse grande avversità per i maomettani, il rettore Proto Arca fu mosso a compassione e così decise di accoglierlo dentro la canonica.
Averroè faticava come prima anche se adesso non doveva più subire le umiliazioni che fino ad allora gli aveva riservato il popolo: cosa incomprensibile, la ferocia dei contadini e dei pastori, delle loro donne e dei loro figli, considerato che lui non era più un nemico terribile che veniva dal mare ma un mendicante, un pezzente che attraversava la terra aspettando la morte.
L’ingresso nella casa del dotto sacerdote, un valentuomo che era riuscito a dimostrare come i barbaricini fossero direttamente discendenti da Ercole, gli valse comunque una migliore condizione di vita oltre che, naturalmente, un cambiamento di abitudini.
Se prima Averroè veniva preso a sassate, così per gusto, a chiunque saltasse in mente, adesso veniva salutato alla stregua di un qualunque altro paesano.
Nessuno gli rovesciava più addosso l’acqua della fontana o l’orcio pieno di escrementi, quando la sua figura, avvolta da una delle tonache disusate di canonico Arca, compariva lungo le carrere o per i vicoli. Era la sua un’ombra familiare ormai, sia che recasse la carità del pievano o sia che da questi fosse stato mandato a riscuotere le decime o ad avvisare le anime della curatoria su quello che il linguaggio delle campane della torre non riuscivano ad esplicare.
L’arabo svolgeva i suoi compiti con diligenza, ubbidiente e mansueto, alla stregua di qualsiasi sagrestano, uno dei tanti Pascaroseddu, Leppéri o Curcuríca, che da sempre, da quando era entrata la religione di Gregorio Magno, avevano servito la Chiesa.
Quel che però impediva ad Averroè di spingersi fino alle estreme conseguenze, era la sua origine, la provenienza dall’esercito di Yusuf Yacub al Mansur, l’eco delle battaglie sui mari, quando la scimitarra era tutt’uno con la mano che si abbatteva sopra i giaurri. Non esistevano i mari di Aragona o l’Invincibile Armada ma solo lo splendore dell’Islam, la mezzaluna in campo verde.
A gradi, a tappe successive di racconto, voce sommessa che diventava mano mano epopea di una civiltà sconosciuta, risalendo i gradoni dell’antica montagna di Sonniana, la gente era venuta a conoscenza della storia di Averroè, prima che la sua puppa da mamma del sole fosse comparsa sul dosso di Chinnóe. La sconfitta di Lepanto gli bruciava ancora mentre l’antica civiltà pastorale esaltava l’impresa della flotta comandata da Giovanni d’Austria: Contra sos moros infideles / Deus at mannatu leones / in Lepanto a muntones / ruttos son sos crudeles.
Averroè riusciva a stento a mascherare la rabbia, quando gli arrivavano alle orecchie quelle laudi. La crudeltà dei suoi compagni di battaglia, così cantava il popolo, era stata ridotta a mucchio inerte dai leoni della cristianità. Al sentire questo, Averroè ridiventava saraceno e si rifiutava di portare la croce durante le cerimonie religiose, di accompagnare il rettore alle estreme unzioni e di coadiuvarlo nei compiti che imponevano di segnarsi. Invano, Proto Arca, facendo appello a tutta la tolleranza di cui poteva essere allora capace un prete, gli chiedeva di farsi battezzare. Averroè aveva rifiutato nonostante continuasse a servire il canonico in umiltà ed obbedienza.
Alternava poi queste incombenze con altre più nobili che erano valse a creargli fama in tutto il circondario.
L’arabo faceva da guaritore di molte malattie che curava con medicine da lui stesso preparate, mischiando con sapienza erbe di vario tipo che tutti ritenevano fino ad allora velenose. Averroè era inoltre un bravo tessitore di racconti oltre che lettore di molti sogni che interpretava dalla posizione delle stelle e degli astri.
Il paese era poi venuto a conoscenza che Averroèddu, ormai era questo il suo nome, aveva combattuto nella battaglia navale di Cavurus, fianco a fianco con l’emiro Yusuf, uccidendo più di cento cristiani. Alla fine, nella conta dei prigionieri, prima di imbarcarli per Tunisi o Algeri, da nave a nave, Averroè era stato impressionato da uno che nonostante portasse addosso un quintale di catene, continuava ad avere uno sguardo fiero e sprezzante del pericolo e della morte. Era l’unico giaurro che ricordasse con commozione: si chiamava Artale Alfonsi e discendeva dall’antico ceppo degli Alagón incrociato con lo spirito vagabondo di un bardaniere vissuto nel buio del medioevo, a ridosso dell’anno mille. Il prigioniero risultava pronipote di Sebastiana Alfonsi che aveva consumato l’esistenza ad allontanare la guerra dal suo unico figlio Artale, ucciso nella battaglia di Macomer. Della sua gente, il guerriero cristiano conservava l’audacia e la generosità: doti che non gli valsero a scampare il remo e la galera.
Averroè affabulava. L’orizzonte marino da lui evocato entrava nel villaggio. Cosa incredibile, la gente aveva preso a sognare. Terre lontane si materializzavano agli occhi di quel popolo senza storia. La luna aveva uno splendore ed un fascino fino ad allora sconosciuti. Averroè diceva che l’intelligenza umana avrebbe potuto raggiungerla un giorno o l’altro e raggiungere la luna significava molte cose. Poteva voler dire che nessun orizzonte risultava impossibile per l’uomo, sia che fosse questi cristiano o seguace di Maometto.
Forse inconsapevole, Averroè andava incontro al tribunale dell’Inquisizione. Una domenica, Proto Arca aveva predicato che a Toledo, anni prima, avevano bruciato un cagliaritano, uno che era stato anche frate, tale Sigismondo Arquer. Averroè invece, Abu Walid Muhammad ibn Rushdhie, lo bruciarono in piazza dopo che tutti gli avevano voltato nuovamente le spalle e Proto Arca era diventato il suo più spietato accusatore.
Correva l’anno 1600.