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Lettera da New York
 
Parlare di quello che è successo, succede, succederà, è inevitabile.
Tanto inevitabile che si rischia di naufragare nei luoghi comuni e nei facili moralismi che nelle ultime settimane hanno riempito le pagine dei giornali, i dibattiti politici, le chiacchiere della gente comune.
Il caso ha voluto che, proprio mentre mi accingevo a scrivere il mio articolo, una persona a me molto cara e vicina si trovasse in questi giorni a New York e da lì mi mandasse una e-mail particolarmente illuminante sui recenti accadimenti.
Nella totale concordanza di opinioni e nella consapevolezza di non poter esprimere gli stessi concetti in maniera migliore, ho preferito trascrivere direttamente la sua lettera. Sperando di far cosa gradita a chi legge le pagine di questa rivista e nella speranza che le sue (le mie) opinioni non cadano nel vuoto.
Scrivo collettivamente a tutti quelli che si sono subito fatti vivi con me spinti dall’orrore e dalla preoccupazione, sperando di non aver dimenticato nessuno allora e di non farlo nemmeno adesso.
Voglio innanzitutto rassicurarvi su quella che è - almeno per il momento - la situazione di qui, e che i giornali italiani (a quanto ho potuto vedere nell’ultima settimana) stravolgono in una maniera tanto rivoltante quanto esemplare.
Non c’è nessuna psicosi, nessuna corsa all’acquisto di maschere anti-gas, nessuna esercitazione militare, nessuna prova di evacuazione della città, nessuna paranoia da veleno libero nell’aria.
Quello che ho visto “sparato” sui giornali italiani è semplicemente disgustoso e dev’essere un monito per tutti sui meccanismi di creazione di uno stato collettivo d’allerta e mobilitazione guerresca.
La città vive come sempre, le strade sono affollate come la metropolitana, gli artisti di strada fanno quel che sanno fare, locali e cinema sono pieni, il grosso convegno su New York s’è tenuto regolarmente, a Times Square è difficile muoversi per la calca... Certo: la polizia è tanta, le angoscianti fotografie delle persone scomparse sono affisse ovunque, la gente sosta commossa davanti alle liste dei nomi dei pompieri scomparsi esposte davanti alle loro stazioni.
E sulla punta estrema di Manhattan resta il vuoto della morte e della distruzione, intorno a cui si stringe una folla spinta dal dolore, ma purtroppo anche da una curiosità morbosa e dal maledetto bisogno di tradurre sempre e comunque in immagine l’orrore e la devastazione.
Il tutto accompagnato dai simboli più vistosi e più kitsch della retorica patriottarda, fra inni, bandiere e preghiere. E da qualche manifestazione contro l’intervento militare. Poche ore fa, però, è giunta la notizia dell’inizio dei bombardamenti e di certo la situazione da domani si farà più complessa e difficile, caotica, tesa. È anche per questo che ho deciso di scrivervi oggi, dopo aver rimandato giorno dopo giorno, per tanti motivi diversi.
Io vedo solo tre ragioni per quest’ennesimo intervento militare:
a) per controllare le vie del petrolio e di altre materie prime vitali per economie nazionali in crisi e in competizione sempre più acuta (la potete seguire sull’atlante, questa doppia via, delle materie prime e delle guerre per esse, che si srotola dall’Africa sub-sahariana al Medio Oriente, dai Balcani alla regione del Golfo e dintorni);
b) per cercare di rivitalizzare quelle stesse economie nazionali in crisi, e in primo luogo l’economia di questo paese che traballa a più non posso (le commesse militari sono l’affare più grosso e qualcuno già commentava l’altro giorno che i titoli legati all’industria bellica e annessi e connessi sono gli unici a volare nei rotoloni continui delle borse di tutti i paesi);
c) per cercare di distogliere l’attenzione dalla crisi ormai mondiale e paralizzarla intorno al terrore di un nemico invisibile, fanatico, pronto a colpire chiunque e dovunque (nei giorni precedenti l’attentato, la radio nazionale che ascoltavo guidando traboccava dell’angoscia della recessione, dei licenziamenti a pioggia, della disoccupazione in crescita, degli inevitabili tagli ai servizi sociali, ecc. ecc. - ora tutto ciò retrocede in secondo piano e le agitazioni dei lavoratori cominciano a essere accusate di “scarso patriottismo”).
Tutte cose su cui meditare, perché potrebbero accadere ovunque (e in parte sono già accadute ovunque!).
Il “cattivo di turno” - comunque si chiami, qualunque sia la sua origine e la sua ideologia - si trova sempre: magari anche fra coloro che fino a pochi anni prima sono stati alleati profumatamente finanziati.
E se è davvero il responsabile (perché come sempre in questi casi i misteri sono davvero tanti e se mai potessero essere sciolti credo che rivelerebbero orrori ben maggiori di quello prodotto), lo è in quanto esecutore di un atto di barbarie che s’inserisce comunque in una strategia ben più ampia, complessa, inquietante. La rabbia, il dolore, l’angoscia provati dunque per l’ennesimo massacro e per il modo tragicamente spettacolare in cui è avvenuto è quella stessa rabbia, dolore, angoscia che si debbono provare quotidianamente per quei massacri, forse meno spettacolari e invece - purtroppo - più di routine che vengono commessi in ogni parte del mondo, spesso in nome della libertà, della giustizia, del progresso.
Che l’ultimo di una serie infinita abbia colpito un simbolo così evocativo e dentro gli occhi di tutti non deve trarre in inganno, se non si vuole cadere colpevolmente nella trappola, nel gioco perverso dei simboli e del loro uso altrettanto perverso. Questa nuova guerra, che s’aggiunge alle molte susseguitesi negli ultimi decenni, non è ancora una guerra mondiale.
Ma, come le altre, rientra in una spirale sempre più veloce e profonda, che a quella guerra mondiale tende e conduce e che ci coinvolgerà tutti.
E mentre qui a New York comincia a far notte e i telegiornali si riempiono una volta di più di un’irrealtà altrettanto brutale della realtà che devono mascherare e all’angolo delle strade i senzatetto (che sono tanti, ma che non compaiono in TV) cominciano a guardare negli occhi il freddo che arriva, che è già arrivato, mi preme dirvi ancora - sapendo che tantissimo resta da dire, ma che non è questo il modo e il momento per farlo - che di fronte a questa guerra, come di fronte a quelle che l’hanno preceduta e a quelle che la seguiranno, combattute tutte per motivi e interessi nei quali non mi riconosco, io potrò essere sempre e solo, attivamente e non passivamente, totalmente e irrevocabilmente, CONTRO.
Arrivederci a presto
NUMERO /3
Anno 2001, n. 3
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