I caratteri di una serie indagine storiografica si trovano invece tutti nel volume, uscito recentemente, per i tipi della CUEC, intitolato “La Sardegna nel regime fascista”, a cura di Luisa Maria Plaisant.
Il libro raccoglie gli atti del convegno Sardegna e Mezzogiorno nel ventennio fascista, organizzato a Cagliari dall’Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell’Autonomia nel gennaio 1998. Scopo del convegno era di tracciare, pur nella varietà delle situazione locale, un quadro complessivo delle vicende sociali e politiche del Mezzogiorno negli anni precedenti e successivi all’avvento del regime di Mussolini, al fine di collocare la storia del Mezzogiorno sotto una prospettiva storiografica diversa, così da metterne in evidenza le antiche arretratezze ma anche le fasi di modernizzazione.
E per la Sardegna, nella fattispecie, una simile ipotesi interpretativa porta inevitabilmente a ragionare intorno ai seguenti due interrogativi: il fascismo ha rappresentato o no un periodo di sviluppo per la Sardegna? Come ha inciso il carattere totalitario del fascismo nell’isola e come si è relazionato e ha condizionato con il potere locale, sia dal punto di vista istituzionale che culturale?
Le risposte di Giuseppe Barone, Luciano Marrocu e Maria Luisa Di Felice, tendono ad individuare una netta cesura tra gli anni venti, in cui persistevano gli impulsi modernizzatori del ventennio precedente, e gli anni trenta, caratterizzati da una gestione di tipo clientelare, con il prevalere di lotte tutte interne al monolitico partito fascista. Sandro Ruju, invece, discostandosi da questa interpretazione, vede una sostanziale continuità nella politica economica tra i due decenni, soprattutto dal punto di vista programmatico.
Il problema di una continuità individuabile tra una certa politica del ventennio e alcuni aspetti degli anni tra il ‘50 e ’70, specie quelli legati agli enti di bonifica per le zone depresse e alla mancanza di una politica per i centri storici, emerge dal contributo di Franco Masala, incentrato sull’analisi sostanzialmente fallimentare del tentativo di ruralizzazione del paese e sulla mancanza di un modello ben definito di città fascista, di cui prende come paradigma la città di Cagliari.
Per quanta riguarda gli aspetti maggiormente legati alle vicende politiche, l’intervento di Salvatore Lupo mette in evidenza l’importanza della piattaforma intransigente che aveva connaturato la politica dei combattenti, specie per quanta riguarda la richiesta di rinnovamento della classe dirigente, circostanza che fece trovare dei punti di accordo tra fascismo ed esponenti del combattentismo (un fascismo che in Sardegna, come viene sottolineato ripetutamente, mise radici per via prefettizia).
Significativa è l’analisi relativa al confronto fra fascismo e PSD’AZ, che nella matrice comune (antigiolittismo, antiparlamentarismo, valorizzazione dell’esperienza della guerra), si contendevano gli stessi consensi. Ed è qui che si analizza la vicenda della fusione sardo fascista del 1923, verificatasi, oltre che come azione governativa, anche come possibilità di fornire una base più concreta alla rottura della vecchia politica del passato, a favore di un rinnovamento politico, come dimostra la figura di Paolo Pili (e interessante la prospettiva di Marrocu, che smentendo una tesi accreditata secondo la quale la fusione fu una resa senza condizioni dei sardisti al fascismo, insiste invece sugli effettivi vantaggi che ebbero molti sardisti “fusionisti”, specie per la possibilità di incidere sul programma economico deliberato dal fascismo per la Sardegna).
Il ruolo del prefetto nel processo di fusione è indagato con acutezza da Santina Sini nel suo saggio sul rapporto tra fascismo e sardismo a Nuoro tra il ’19 e il ’24, mentre lo studio della curatrice Luisa Plaisant è tutto teso a far risaltare il ruolo che il partito ebbe come catalizzatore di consenso in provincia di Cagliari, non solo dal più generale punto di vista coercitivo, ma anche come somma delle garanzie e dei privilegi che l’aderire al regime mussoliniano comportava.
Importante è anche il saggio di Francesco Atzeni, dedicato all’analisi dei rapporti tra Fascismo e Chiesa, della quale si sottolinea il ruolo di istituzione parallela al regime, specie dal punto di vista culturale, grazie soprattutto alla penetrante e incisiva attività dell’Azione Cattolica. Il saggio di Eugenia Tognotti, relativo alle implicazione nelle due Università delle leggi razziali del 1938, offre invece il quadro del totale asservimento delle istituzioni universitarie alle direttive razziali, sia per ragioni di paure oggettive, ma anche in ragione di un sedimentato consenso intorno anche a quella politica, che nel ’38 non pare diminuito.
Altea e Magnani, con il loro saggio su arte e fascismo in Sardegna, mettono in luce il contrasto tra un clima politico-culturale molto attivo negli anni Venti e il successivo decennio in cui l’arte e la cultura sarda si svuotarono di tutti i temi relativi al regionalismo per appiattirsi sui modelli culturali relativi al, per usare un’espressione di Emilio Gentile, “culto del Littorio”.
Gli interventi di Simone Sechi e Mariarosa Cardia indagano il momento del trapasso dal fascismo alla Repubblica, soffermandosi in particolare sul ruolo dei partiti nella riconquistata libertà e sulla rinascita della tematica regionalista attraverso il ruolo dei sardisti. Oltre ad un prezioso intervento di Manlio Brigaglia che ripercorre con una puntuale sintesi le vicende della storiografia sul fascismo in Sardegna, l’ultima parte del volume è dedicata (con gli interventi di Ferrai Cocco Ortu, Multinu, Tilocca, Ammirati e Porrà), alla possibilità di consultazione e allo stato delle fonti degli archivi storici sardi, oltre al ruolo della Sovrintendenza archivistica per la Sardegna, mentre l’intervento di Jacopo Onnis analizza il rapporto spesso difficile e conflittuale tra televisione pubblica e storia contemporanea.