Anche questo sono state le elezioni del 13 maggio, quelle del famoso “election day”.
Per quanto riguarda la Sardegna, la sconfitta del centro-sinistra, in termini di seggi conquistati, è stata, specie nel cagliaritano, particolarmente marcata.
A ragione, dunque, mia madre ha ricordato a me e mia sorella (facendo vergognare paurosamente la nostra metà cagliaritana, ormai quasi rassegnatasi al dato che Cagliari sia, di fatto, una città di destra) che se non ci fosse stato il nuorese, per l’Ulivo in Sardegna le cose avrebbero assunto le dimensioni di una catastrofe.
Ma che le elezioni non sarebbero andate troppo bene, l’avevo già intuito facendo il rappresentante di lista il 14 e il 15 maggio in un seggio cagliaritano (per inciso, quello del rappresentante di lista è, francamente, un lavoro ingrato, specie quando lo si fa, come in questa tornata elettorale, per un partito del centro-sinistra, col serio rischio di vivere una situazione mortificante e altamente paradossale).
Un primo sentore della sconfitta era già evidente nella composizione dei rappresentanti di lista: noi dell’Ulivo eravamo tre, dico tre in tutto il seggio, costituito da circa otto sezioni.
I rappresentanti del Polo erano almeno due per seggio, ma in particolare i rappresentanti di Forza Italia brillavano per organizzazione: tutti avevano un patinato libretto in cui erano esemplificati al meglio i casi di contestazione e di attribuzione di voti incerti; tutti avevano delle tabelle in cui riportare ordinatamente i voti raccolti, da comunicare tempestivamente attraverso i telefonini.
Noi avevamo degli striminziti fogli di quadernone e la penna portata da casa. Nessuno ci ha mai telefonato per chiederci i dati, e noi non sapevamo che fare. Questa circostanza rende evidente che mentre gli eredi del comunismo hanno mandato in soffitta i metodi e l’organizzazione del PCI, troppo preoccupati di accreditare una loro supposta identità liberal, Berlusconi deve averne recuperato intelligentemente i metodi e le forme (non a caso, nell’ultimo numero della “Primavera di Micromega”, un acuto articolo metteva in correlazione le somiglianze tra la retorica propagandistica in uso nell’Unione Sovietica e l’oratoria Berlusconiana).
Ma un altro elemento mi pare sia emerso con forza, specie dalle elezioni amministrative: per essere eletti nei Consigli Comunali di città più grandi di 15000 abitanti, con la preferenza unica, bisogna spendere.
E questo grazie ad un sistema elettorale che secondo alcuni avrebbe portato alla compiuta maturazione del sistema politico italiano, ma che ha invece decretato di fatto lo stato comatoso dei partiti e l’affermazione del trasformismo più sfacciato. È una democrazia drogata, quell’italiana.
Drogata dai soldi, drogata da quei salassi che sono le cene o le serate che ogni candidato deve organizzare per essere eletto (e che hanno ben poco a che fare con i progetti di ampio respiro di cui la politica si dovrebbe nutrire). A Cagliari, nella settimana precedente le elezioni, era praticamente impossibile trovare un locale che non fosse stato affittato da qualche candidato.
E così, gettata nel dimenticatoio la tanto vituperata “partitocrazia” della prima Repubblica, siamo entrati in un’angosciante “cresocrazia” e in un elitismo sempre più meschino (non è un caso che i partiti si guardino bene dal candidare persone provenienti da ceti popolari, con la motivazione che non muovono voti).
Purtroppo in questo maggio elettorale, ad aggravare la malinconia, è venuto a mancare Alessandro Natta. Una grande personalità della sinistra che non aveva smesso di biasimare finemente, (in solitario, dal suo esilio ligure, perché tale era) la deriva personalistica e la falsa opinione che il sistema uninominale avrebbe rifondato la politica, invocando giustamente il ricordo del carattere notabilare del sistema uninominale dell’età post-unitaria, criticato a suo tempo già da uomini della tempra di Salvemini e Gobetti.
Una sinistra che perde un uomo del prestigio intellettuale e morale di Natta, senza averlo praticamente calcolato per un decennio, deve svolgere una severa autocritica.
Così come lo dovrebbe fare la sinistra sarda, mettendo finalmente da parte gli eccessi di protagonismo di alcuni supposti salvatori della patria, che in nome di una loro tutta da soppesare superiorità e capacità di catturare consensi (che sulla carta si sono invece miseramente dissolti in una bolla di sapone), hanno creduto di incarnare da soli il rimedio contro tutti i mali, in nome della fine delle ideologie e della necessità di mandare “chi lavora in Parlamento”.
Oltretutto, c’è già chi chiede a gran voce un nuovo Statuto e un’Assemblea Costituente Sarda, palingenesi di tutti i mali della nostra isola, dimenticandosi però che per fare operazioni del genere, ci vogliono costituenti con la C maiuscola. E, di questi tempi, non se ne vedono molti.