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Lakanas (Confini)
 
“Tra 10 o 20 anni, guarderemo al periodo che stiamo vivendo oggi nello stesso modo in cui adesso guardiamo alla rivoluzione industriale”.
Così si è espresso l’analista Henry M. Blodget, riassumendo un po’ la “civiltà del bit”.
L’apparente linearità del processo si sta caratterizzando, anche se ciò non è cosa inedita, in due contrapposte e coesistenti tendenze: da una parte coloro che l’accettano nell’accezione ottimistica e dall’altra coloro che già dipingono scenari nefasti.
I primi esaltano la globalizzazione e si considerano a pieno titolo cittadini del mondo, utilizzando quanto la tecnologia offre, in una prospettiva di fiducia nel futuro, nella ferma convinzione di ricavarne da esso una maggiore possibilità di nuove opportunità e nello stesso tempo aperti al cambiamento inteso come valore positivo di novità, miglioramento e rinnovamento.
I secondi, invece, vivono questi mutamenti con disagio, paura e persino rifiuto.
Costoro vivono il villaggio globale come una pericolosa spinta all’omogeneizzazione ed esercitano una strenua resistenza con una dialettica oppositiva, in cui si rinforzano i caratteri negativi del localismo chiuso. Tale aspetto assurge spesso a norma di vita nella speranza di non essere toccati da nessuna rivoluzione che ne pregiudichi le certezze del presente, in ambito familiare, lavorativo e politico. Ciò che Hermann definisce “sindrome dell’aggrappamento”.
Questa premessa ha come obiettivo la definizione di un quadro di riferimento in cui ognuno di noi si può collocare in rapporto alla propria storia familiare, all’autostima, alla fiducia in se stessi e al contesto in cui ha vissuto e vive. “Il mondo degli adulti è per me un mondo sconosciuto: tutto da esplorare. Da tempo sto cercando di conoscerlo, ma debbo dire con scarsi risultati. Comunque ritengo che il mondo dei ragazzi sia migliore, perché animato da sentimenti veri, quale l’amicizia e l’amore.
A noi non interessano i soldi, l’odio, l’arrivismo, la concorrenza, le case al mare… eccetera.
Ci accontentiamo di poco e poco ci basta per farci ridere, perché ci sentiamo tutti complici.
Il nostro è un mondo luminoso, profumato di allegria, voglia di vivere, di giocare, di scherzare. Non conosciamo la cattiveria. E se qualche volta vi sembriamo “cattivi”, sappiate che vi stiamo imitando!
Il mondo degli adulti è buio, scandito in rigidi orari: lavoro, casa, famiglia e poi ancora lavoro, casa, famiglia e così all’infinito. Poco tempo da dedicare al gioco, agli amici, allo sport e a tante altre mille cose che magari in gioventù si amava fare. Poi ci sono i problemi con i colleghi di lavoro e spesso si torna a casa nervosi, scaricando un po’ di rabbia sui figli.
Mi sembra che siano nati vecchi di spirito e per rigenerarsi dovrebbero lasciarsi andare e fare le cose che li rendevano felici da bambini: mangiare un gelato in compagnia, fare un giro in bici, dare due calci ad un pallone, fare una corsa in spiaggia. […]
In genere sono tutti molto pessimisti e non sanno cercare il lato buono delle cose. Inoltre hanno una grande e scoraggiante mancanza di immaginazione: bisogna sempre spiegar loro le cose.
Tutto il mondo degli adulti mi sembra un po’ triste e loro ci invidiano perché in fondo non riescono a ritornare indietro: ai giochi e alla spensieratezza. Però dato che un bambino solo non può stare, non può vivere e non può fare a meno di una persona grande, gli adulti ce li teniamo così.
Mi stavo dimenticando una cosa, forse la più importante, noi sappiamo sognare, gli adulti hanno dimenticato come si fa”.
La scuola che vorrei
“Questo tema vorrei iniziarlo e concluderlo subito con una sola parola: CHIUSA. Continuo in quanto penso sia molto importante entrare nel merito. Una cosa che proprio non mi piace è l’edificio, ci dovrebbero essere le aule più spaziose e luminose. Al posto della vernice nei muri ci dovrebbe essere della carta bianca in modo che tutti i ragazzi possano scrivere quello che vogliono. I banchi dovrebbero essere spaziosi come la cattedra, in modo da poterci stare anche in quattro.
Ci vorrebbe un’aula per ogni materia. I libri dovrebbero essere come dispense in modo da poterli lasciare a scuola e portare a casa solo quello che ci serve per studiare...
Ogni alunno dovrebbe avere a disposizione un computer. A scuola si dovrebbe andare un giorno sì e un giorno no. I bidelli dovrebbero essere giovani, possibilmente boni, ma soprattutto gentili con le ragazze.
Nell’andito ci dovrebbero essere bar e gelaterie con tutto a prezzi dimezzati. Ogni aula deve poter comunicare con le altre con una porta di vetro. Lungo l’andito ci dovrebbero essere dei flipper da usare gratis.
Ogni settimana si dovrebbe effettuare una visita guidata all’interno della Sardegna e una volta ogni 3 mesi un viaggio d’istruzione in Italia, ovviamente finanziati dalla Regione. I bagni dovrebbero essere come quelli delle scuole americane, con specchi, lavandini decenti e asciugamani.
Ogni mese verrà a scuola un parrucchiere professionista, possibilmente gay che sono molto simpatici. Ogni anno scolastico si concluderebbe con foto di classe da esporre negli anditi. Un giardino enorme con scivoli e altalene dovrebbe circondare l’intero caseggiato. Ogni settimana verrà proiettato un film. A fine anno scolastico ci sarà un concorso per individuare il ragazzo più studioso. Il vincitore, come premio, avrà l’onore di accendere il falò con tutti i libri dell’istituto.
Questa è la scuola che noi ragazzi vorremmo poter frequentare”.
Ho voluto proporre due temi di miei ex alunni sul mondo degli adulti e sulla scuola. Al di là di alcune stravaganze in libertà, ciò che ci deve far riflettere è che loro hanno percepito i segni delle trasformazioni epocali, mentre come genitori e insegnanti stazioniamo in una zona d’ombra, senza accorgerci che, spesso, siamo noi che impediamo loro di comportarsi in modo autonomo e responsabile.
Inoltre, paradossalmente, la scuola, che accoglie ciò che è più soggetto al cambiamento, i giovani, è anche il sistema che meno è cambiato. “La scuola ha un problema solo: i ragazzi che perde. La vostra scuola ne perde per strada 462 mila l’anno”. Così scriveva nel 1962 don Lorenzo Milani in “Lettera a una professoressa”.
A distanza di quasi quaranta anni sembra che i percorsi e gli esiti nel nostro sistema formativo non siano poi cambiati di molto, almeno a quanto riferiscono le indagini condotte dall’Istat e da altri istituti di ricerca.
Senza alibi di sorta bisogna dire che l’istituzione scolastica ha fallito e sta ancora fallendo il proprio compito etico, in quanto fonda il suo ruolo esclusivamente sul ragionamento logico-verbale, attiva la comprensione attraverso la descrizione, la rappresentazione, la deduzione, la classificazione, la catalogazione di leggi – verità – certezze, la normativa concettuale articolata in: linearità, continuità, analisi, astrazione, sillogismo, concetto, scala gerarchica dei linguaggi.
In sintesi le conoscenze si strutturano lungo un percorso sostanzialmente lineare e unidimensionale, previsto dal docente nella lezione o dall’autore nel libro di testo. Niente di più antitetico rispetto al percorso reticolare intrapreso dal nostro pensiero. Mentre la comunicazione dei giovani è sempre più fatta di sintesi, di discontinuità, evocazione di esperienze (sociali, archetipe, individuali, ambientali) legate alle cose della vita quotidiana. Pertanto il problema della comunicazione è centrale ed urgente per ridistribuire le conoscenze, per porre rimedio alla scarsissima produttività del sistema scolastico in Italia. Gli attuali orientamenti della ricerca si stanno interessando della diffusione di ambienti di sviluppo che consentano all’utente di essere al tempo stesso lettore e autore, cioè non solo fruitore ma anche costruttore critico e creativo delle proprie conoscenze.
Qualcuno dice che siamo di fronte ad una vera e propria “mutazione antropologica”. Se il visivo e la musica sono i veri linguaggi dei giovani e se l’immagine e il suono sono gli elementi unificanti dei saperi dei giovani, la “digitalizzazione” costituisce un terremoto cognitivo, riguarda cioè i processi di apprendimento, stravolge la comunicazione ed i saperi.
Si è nella piena consapevolezza che qualsivoglia educazione multigenerazionale (del bambino come dell’adolescente, dell’adulto come dell’anziano), chiede l’adozione di metodi e strumenti rigorosi e sofisticati, di cui la titolare più accreditata appare per l’appunto la didattica, intesa come quella capacità di saper creare le condizioni materiali ed immateriali perché chi impara impari davvero e il più possibile impari per sé e per la propria autocoscienza, piuttosto che per la trasmissione passiva.
In altre parole la didattica dovrebbe mettere in comunicazione le dimensioni di sviluppo delle diverse età generazionali (gli stadi cognitivi e socio-affettivi delle singole età evolutive) con gli oggetti simbolico – culturali (le strutture della conoscenza umanistica e scientifica, e i modelli di vita sociale da queste generati) all’interno delle istituzioni intenzionalmente formative: la famiglia, la scuola, l’associazionismo, la chiesa, nonché le agenzie del tempo libero e della cultura di massa. Pertanto il suo obiettivo è quello di fungere da mediatore culturale dei processi educativi, a partire da quelli scolastici dove ha consolidato presenza e legittimazione.
Detto così il campo sembra sgombro da possibili freni e che si possa procedere secondo una traiettoria rettilinea. Non è proprio così. Permangono implicanze, di rilievo, che hanno tratto origine dalla cultura gentiliana, e le stesse permangono sedimentate, tra chi insegna e chi impara fondate in una dimensione elitaria di un sapere per pochi, di un pensiero educativo paternalistico, a-didattico, seduttivo, che mette al centro chi insegna e la sua ipertrofia educante piuttosto che chi impara e i suoi diritti.
Quanto tempo c’è voluto in Italia per avviare, dico avviare, l’idea dell’insegnante professionista, inteso come soggetto che garantisce a chi impara di farsi un proprio sapere, a scapito dell’insegnante intellettuale, inteso come soggetto che ha al centro il sapere: il suo sapere. Non è un caso che la didattica non appartiene al patrimonio sublimante degli insegnanti italiani perché considerata “tecnica”, ma che l’importante è la “Cultura”, cioè l’ipertrofia dei propri saperi da trasmettere. Non è quindi un caso né un fatto politico contingente che ancora oggi gli insegnanti non abbiano una formazione iniziale per insegnare, perché tutto sommato si considera implicitamente più importante la loro “sapienza” piuttosto che la loro “saggezza”. È più antica di Gentile la famosa frase “chi sa insegna”, e non è così matura invece la condivisione che dovrebbe essere “chi sa insegnare insegna”.
Ecco perché oggi la questione della didattica come cuore del ruolo dell’insegnante è ancora la parte più debole e povera delle nostre professionalità docenti. La relazione tra chi insegna e chi impara non è questione strettamente psicologistica, ma relazionale complessa: l’insegnante non è Freud, ma non può neppure essere uno spontaneo adulto che gioca a caso le sue relazioni con bambini, adolescenti o giovani.
È questa la rivoluzione copernicana in campo educativo: al centro di tutto il processo va posta la relazione fra insegnante e allievo, fondata su stima e rispetto reciproci, in cui l’insegnante sappia essere se stesso, autentico in ogni momento del suo lavoro; l’allievo si senta accettato ed amato; l’apprendimento si attui in un clima di libertà, sia “significativo, automotivato e basato sull’esperienza”.
Quanti destini di ragazzi sono ancora segnati, in sede di valutazione, dall’“exprit de géométrie” del 4 punto 22! È sconcertante il basso livello di ricerca pedagogica sull’educazione nel nostro paese. Finché la storia della pedagogia e i pedagogisti saranno considerati solo come autori per i concorsi e niente più, noi come insegnanti non possiamo davvero andare molto lontano nella nostra professionalità.
Qui il discorso è tutto nostro. È mia convinzione che non saranno le recenti riforme, l’autonomia, i saperi essenziali e la riforma dei cicli, a rivoluzionare gli assetti e gli esiti formativi nella scuola, quanto la forza e il coraggio di cambiare dentro che avranno gli insegnanti per uscire da quelle ingombranti atmosfere e ossessivi orizzonti da Deserto dei Tartari, nella cui opera viene descritta un’esperienza di vita non segnata da alcun avvenimento eccezionale e tuttavia tesa verso un’assurda speranza del “fatto”, che riempia di significato l’esistenza e la esalti in una superiore giustificazione. Il momento atteso viene, dopo anni e anni, ma a decretare la disfatta di una vita. Mi auguro che non sia così per noi docenti, che a forza di star fermi ai nastri di partenza (le riforme che non arrivavano mai), ci stiamo autoconvincendo, forse non sopportando più la fatica dell’immobilità, di essere alla fine di un percorso e di essere già sulla linea del traguardo.
Oggi la scommessa sembra essere nella scelta di campo, sintetizzata dalla frase “La certezza sta nella gestione delle incertezze”. Intendendo per gestione del-l’incertezza il lavoro comune per costruire certezza collegialmente fabbricata, certezza condivisa, pronta sempre a confrontarsi col dubbio. È in quest’ottica che le riforme saranno validi strumenti di supporto per l’innovazione e per facilitare una nuova cultura della comunicazione per lavorare insieme in ogni singola istituzione scolastica e per aprirsi al territorio e al mondo.
* - Sintesi della relazione “Una nuova cultura della comunicazione per lavorare insieme”, (Corso di formazione, destinato ai docenti incaricati nelle “funzioni obiettivo”).
NUMERO /2
Anno 2001, n. 2
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