Quando il vento spazza via il sudario che avvolge la città nella sua vita indaffarata e produttiva, a causa della sua vita indaffarata e produttiva.
Milano, che non sa più vivere perché lavora troppo. Semafori che diventano arancioni prima che si raggiunga l’altro lato della strada, auto che sfrecciano sfiorando i passanti sulle strisce, passanti che bestemmiano, Dio che non li sente perché è indaffarato a mettere le uvette nei panettoni del prossimo Natale. Ma non la domenica.
Sono le due e un quarto del pomeriggio, esco di casa tranquillo, tanto la Juve gioca in notturna.
Le camicie non servono più, ormai si passa dal maglione alla maglietta: ieri nevicava, oggi si schiatta dal caldo.
C’è silenzio, guardo gli alberi del parco e penso alle famiglie finalmente ricomposte dopo la settimana lavorativa, immagino donne elegantemente chine sui fornelli, mariti che leggono il giornale in pantofole, visoni banali, da America anni ’50.
Passa qualche tram, vuoto, ma non lo prendo perché voglio andare a piedi. Corso 22 Marzo: scelgo il marciapiede ombreggiato e mi fermo a guardare le vetrine dei negozi chiusi poi, all’altezza di Piazza 5 Giornate svolto a destra e arrivo in Via Archimede, prendo il mazzo di chiavi e apro il grosso portone.
Ebbene sì, sono in ufficio.
Ma non mi vergogno, non sono uno schiavo del lavoro, mi piace il mio lavoro e devo semplicemente consegnare un pezzo per domani mattina, così vengo qua, c’è l’aria condizionata e il distributore d’acqua.
Metto su anche un po’ di musica, tanto sono da solo. Accendo il computer, controllo la posta, apro Word, mi metto comodo e comincio a scrivere.
Tutto fila liscio, mi sento bene, “ispirato”, come Hemingway che scrive storie di pesca in un bar sui viali di Parigi. A un certo punto, diceva lui, è il racconto che si scrive da solo e tu non devi fare nient’altro che mettere giù le parole una dietro l’altra, per poi fermarti e lasciare il resto al giorno successivo, sapendo esattamente da dove riprendere e che cosa deve succedere, in che modo la storia deve andare avanti.
Io ovviamente non sono Hemingway, e non sto nemmeno scrivendo un racconto, ma capisco perfettamente quello che vuole dire. L’articolo è praticamente terminato, manca solo la conclusione e mi alzo per sgranchirmi le gambe. Faccio un giro per le scrivanie dell’ufficio, apro i cassetti, curioso ma non trovo niente, chissà dove sono gli altri e cosa stanno facendo.
Il sole comincia a fare capolino da un angolo della finestra, sto per abbassare una tapparella ma qualcosa colpisce la mia attenzione. Penso trattarsi di un riflesso sul vetro dell’ufficio di fronte, a una decina di metri dal nostro, sullo stesso cortile interno.
Ma non è un riflesso di me alla finestra, è un’altra persona a un’altra finestra, in un altro ufficio. Sorrido e mi viene quasi da salutare ma l’uomo non mi guarda, non so nemmeno se mi ha visto anche se ho come l’impressione che abbia notato la mia presenza.
L’uomo sparisce e io sto per rimettermi al lavoro ma la cosa succede di nuovo: un’altra finestra, un altro uomo, in un altro ufficio. Allora do un’occhiata sistematica a tutti gli interni che riesco a vedere e vedo altra gente, seduta alla scrivania, davanti allo schermo del computer, con la cornetta in mano, decine di persone. Che strano, dico, così tanta gente in ufficio, di domenica.
Allora torno alla scrivania, vagamente turbato, spengo la musica, riapro il file e mi rimetto a lavorare. In silenzio. Per non farmi sentire dagli altri. Che lavorano. In silenzio. Per non farsi sentire dagli altri.
