Uno di questi è che gli uomini siano stati nelle grandi linee, con i condizionamenti del paese d’origine e dell’epoca, sempre gli stessi, anche se ognuno costituisce una variante particolare.
L’altro è che il razzismo, sia riguardo al colore della pelle, sia riguardo agli stranieri o agli handicappati, sia riguardo all’essere d’età diversa o all’essere uomo o donna, genera soltanto dolore, in chi lo subisce e, se ci sarà coscienza del degrado, in chi lo professa.
La donna è come l’uomo un essere ragionevole e sensibile, ma si è spesso trovata in una situazione di dipendenza e di essere, o addirittura sentirsi, inferiore all’uomo, essendo obiettivamente più debole e più portata al sacrificio, nella dedizione al marito, ai figli, ai genitori e anche ad estranei.
Non si terrà conto in questa sede delle donne malvagie, a volte vere e proprie streghe, intese come persone atte a fare il male e a danneggiare gli altri nei loro progetti di benessere materiale e morale, ma solo della maggioranza delle figlie, fidanzate, mogli, madri, zie, nonne, donne in carriera e quanto altro, che nei loro limiti, in questo non certo da meno degli uomini, hanno contribuito e contribuiscono a far andare avanti la famiglia, la società e le istituzioni.
Siamo purtroppo consapevoli che la presunta superiorità del maschio nella specie umana è attualmente non di rado espressa in violenza e possesso, talvolta in disprezzo, mentre è venuta a mancare la forza protettiva, una prerogativa primordiale, in favore di un estremo polimorfismo. Virtù e conoscenza rendono in ogni modo l’umanità più civile e meno brutale e, tornando indietro nel tempo, sembra che queste capacità non mancassero ai Protosardi.
Se è vero che le civiltà si giudicano dalla condizione in cui sono tenute le donne, si cercherà di analizzare i dati che si possono elaborare in questo senso.
La prima considerazione che emerge è l’importanza data alla figura della madre con la mano destra alzata in atto di preghiera-saluto e il figlio morto o gravemente malato in grembo, resa con grande drammaticità nel famoso bronzetto di Urzulei, conservato nel Museo archeologico nazionale di Cagliari, denominato “madre dell’ucciso”. Fa venire in mente, con le debite proporzioni e prospettive storiche, la Pietà di Michelangelo.
È da supporre che le attività della donna di allora in prevalenza fossero legate al focolare e al fuso, come in tutte le società preindustriali, e inoltre alla cura della crescita e dell’educazione dei bambini, alla produzione di vasellame, alla raccolta di frutti e erbe selvatiche e all’allevamento degli animali da cortile.
Il suo ruolo nella famiglia e la sua affettività erano grandemente considerati, come si evince dalle statuette di cui sopra, il che fa pensare a legami interpersonali basati su solide basi. La solennità e la fierezza delle donne riprodotte, ben inserite nel loro contesto tribale, rendono acuto il contrasto con le donne attuali, spesso sole e costrette in parti di donna oggetto, che finiscono per sminuire le loro potenzialità. Un contatto così stretto fra i membri della comunità comportava conversazioni, reazioni, espressioni di gioia e d’ira, pranzi, balli e canti di gruppo. Vivevano inoltre in un ambiente naturale intatto, con fauna, flora e sorgenti incontaminate.
La vita di allora era comunque senz’altro più difficile dell’attuale, l’economia e la medicina meno sviluppate, le carestie e i combattimenti assai frequenti, gli oggetti di consumo infinitamente più rozzi e poveri.
Le possibilità di variare i propri compiti erano limitate al minimo, perché la società era più semplice dell’attuale. I bronzetti e le statuette in argilla raffigurano donne d’alto rango, vestite con lunghe tuniche e avvolte in scialli, mantelli e stole, in atto d’oranti od offerenti, e donne di bassa estrazione, vestite con tuniche più corte, che recano in testa ceste o anfore. Non mancano alcune figure di sacerdotesse con cappelli a punta e larga falda, cosiddetti a petaso, anche successivamente riferiti alla magia.
Non conosco sculture di donne con lo sposo o nel momento delle nozze. I rituali relativi rimangono sconosciuti. Sono invece ipotizzabili i gesti di preghiera e di adorazione nei confronti di divinità da identificare nelle forze della natura, acqua, fuoco, cielo, toro, pietre e forse idoli lignei. Il Sardus pater personalizzato è da attribuirsi alla fase finale della civiltà nuragica, già influenzata dalle religioni extrainsulari.
I betili conici antropomorfi lisci, maschili, e mammellati, femminili, i più noti dei quali, in numero di sei, si trovano a lato di una tomba di giganti isodoma in località Tamuli-Macomer, dovrebbero invece essere delle stilizzazioni del maschile e del femminile come principi di fecondità e di vita e come ricordo dei defunti, passati nell’al di là.
Possiamo farci un’idea dell’esistenza delle donne dell’età del bronzo e del primo ferro con la lettura dell’Odissea, che narra le gesta di Ulisse, vissuto contemporaneamente ai Nuragici.
Ulisse, come altri Greci, Etruschi, Egiziani e altri, era un navigante e non è improbabile che anche i Protosardi andassero per mare, con tutte le conseguenze che la marineria comporta.
È invece più che verosimile che le donne restassero a terra, perché erano legate alla famiglia, alle incombenze domestiche e al bestiame. Andava per mare una minoranza di uomini validi, altri praticavano la transumanza, come Ulisse andavano incontro a pericolose avventure, forse come lui volevano tornare al loro villaggio.
Tornare alla sua vita semplice solo in apparenza, alle donne scelte per compagne, ai figli, ai cani, alle mandrie.
Allora il villaggio costituiva un microcosmo e si era ben lungi dal “villaggio globale” in cui, contenti o no, siamo destinati a vivere. Tornando all’altra metà del cielo di epoca nuragica, possiamo individuare negli utensili, negli accessori e nei rari monili alcuni aspetti della loro esistenza. Gli strumenti di lavoro erano le fusaiole, le macine per il grano, le stoviglie, sono stati trovati anche alcuni specchi ovali in lamina di bronzo, talora finemente decorati, collane in vaghi di bronzo e di ambra, braccialetti in argento e bronzo e fibule.
I confronti con contesti coevi extrainsulari di questi oggetti, mentre c’è originalità nelle ceramiche, dimostrano che anche allora la moda teneva conto delle usanze di popoli diversi.
Le relazioni amichevoli e gli scambi con i popoli insediati sulle coste del Mediterraneo, attestati da ceramiche e bronzi sardi in Etruria e nelle isole Eolie e da oggetti di importazione in Sardegna, che dovevano ruotare intorno alle materie prime presenti nell’isola e ai suoi approdi lungo le vie dello stagno e dell’ambra, favorirono incontri fra donne sarde e stranieri e non sono improbabili contratti matrimoniali politici per ingraziarsi i principi forestieri.
La donna, tradizionalmente portatrice di cultura, intesa come trasmissione di usi e costumi, ovvero in senso antropologico, contribuì in tal modo a formare un clima di internazionalità e di tolleranza reciproca, presto interrotto dal sorgere degli imperialismi di Cartagine e Roma.
Da quanto sopraddetto risulta che il ruolo della donna nella civiltà nuragica fu molto incisivo e che le donne erano tenute in gran conto, anche se si può notare una ripartizione di compiti differente rispetto all’uomo. Alcuni autori hanno inteso questa importanza come una forma di matriarcato, ma il potere della donna era limitato alla casa e a responsabilità nei riti tribali ben precise, mentre il potere che noi chiamiamo politico era senza dubbio, come testimonia Omero, in mano ad un rex e ai suoi nobili guerrieri. Allora la politica era strettamente legata al comando militare e quindi più consona alla determinazione e all’aggressività maschili, anche se da sempre esiste una minoranza di donne particolarmente battagliere, disinteressate o comunque scarsamente coinvolte dalle emozioni e sentimenti che scaturiscono dalla vita di famiglia.
BIBLIOGRAFIA G. Lilliu, Sculture della Sardegna nuragica, Cagliari, 1966.
Id., Bronzetti e statuaria nella civiltà nuragica, Ichnussa, Milano, 1981, pp. 179- 251.
F. Lo Schi
avo, Economia e società nell’età dei nuraghi, Ichnussa, op. cit., pp. 255-347. G. Ugas, La tomba dei guerrieri di Decimoputzu, Cagliari, 1990.
Omero, Odissea, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti, Torino, 1989. A. Guidi - M. Piperno (a cura di), Italia preistorica, Bari 1992.