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Framas, Camilleri e Pirandello
 
Ci sono dei testi che esistono nella mente dei lettori prima ancora di vederli fisicamente.
È il caso di uno straordinario libretto di cui sono entrato in possesso qualche tempo fa, dopo averlo inutilmente cercato e dopo aver tentato di sapere notizie sui loro autori: Sebastiano Farina, figlio, Francesca Dadde Farina, madre, Rosa Francesca Farina, figlia e sorella. Titolo del libro: Framas, 79 pagine, per le edizioni Angelo Mastria Service di Roma. Anno di stampa: 1998.
Di Framas già conoscevo l’esistenza dal giugno del ’99, quando trovai una scheda molto bella fatta da Lidia De Federicis sulla rivista L’Indice dei libri del mese.
Venni così a sapere che l’opera in questione riguardava sardi emigrati in Toscana. Di Bitti? Di Orune? I tentativi di saperne di più si sono subito arenati.
Forse non ho chiesto alle persone giuste. Così Framas è finito nel dimenticatoio fino a quando, poco tempo fa, Pietro Clemente, docente di antropologia culturale all’Università di Siena, mi ha fatto avere il libretto.
Lo ridico: Framas è una cosa straordinaria, capace di destare profonda emozione. Per come il libro è strutturato e per quel che contiene. Sono quattro parti: una presentazione di Saverio Tutino, le poesie di Sebastiano, s’attitu di Francesca, un racconto di Rosa Francesca, e una postfazione di Joyce Lussu. Tutto, si potrebbe dire, all’insegna della magnificenza se non fosse che sono dei testi che elaborano il lutto.
Sebastiano Farina, il protagonista principale, era un giovane pastore, traslocato insieme alla famiglia dalla Sardegna in Continente, che, dice Saverio Tutino nel suo scritto introduttivo significativamente titolato L’assenza dei vivi e la presenza dei morti, “praticava la poesia, insieme con la pittura e la scultura”. Finché, il 3 gennaio del 1988, “in uno schianto fra la sua motocicletta e un’auto uscita dalla propria corsia, Sebastiano Farina è morto a trentatré anni”.
Tutino che si occupa di biografie da raccogliere in Archivio (c’è un apposito premio annuale a Pieve Santo Stefano) trova che quelle di cui sono protagonisti i sardi abbiano uno spessore particolarmente vivo. Da qui il titolo del suo scritto a sua volta derivato da una frase della pittrice torinese Barbara Elter: Tutti i morti che ho conosciuto da vivi, li sento presenti.
Ho sempre sofferto di più l’assenza dei vivi. E chi più vivo di Bastiano Farina? Di lui Framas ripropone una raccolta poetica intitolata Lepre degli anni: lottando per non/svanire come le tracce/nel far da lepre agli anni. Versi in forma diaristica che testimoniano di amore e di dolore, la perdita e la possibilità che la chimera (che/ ti vedo in/vero ogni/die) abbia una svolta.
Una scrittura viva, palpitante, dentro il corso del tempo. Poi lo schianto. È qui che entra allora s’attitu della madre, ricostruito in scrittura (sardo e italiano a fronte) ma non per questo meno intenso e coinvolgente. Il giorno della morte di Bastiano, “era un giorno”, scrive Tutino, e sembra di leggere Pasternak, “in cui le cose si concentravano su un evento che pareva la morte di tutti”.
S’attitu è cantato in sardo bittese: Su tres de primu mese/da mi l’app’ammentatu,/su tres de primu mese/male volatu sese!/Da mi l’app’ammentatu!/Male n’che se ses volatu.
Metafore ricorrenti, strazianti e consolatorie, sono quelle tradizionali riportate in Colle e in Siena: sa domo, su coro, meu vrore, anzòne, manos tuas d’oro.
Ma tutto sono queste parole in rima tranne che convenzione. Una parola più ricorrente delle altre è ortu che noi, a dire dell’alta valenza del canto, somigliamo a due classici pur distanti tra di loro: l’hortus conclusus della tradizione letteraria italiana e s’ortu della tradizione orale sarda, giardino de s’attitu: intratu nch’est su rivu/e m’a’ distruttu s’ortu.
Addio di Francesca Rosa è un racconto di viaggio verso oriente dove Sebastiano ricompare in tutta la sua fisicità, corpo giovane pieno di vigoria e maestria nel governare le vele, e insieme figura quotidiana “imbrattata di colori splendenti, le mani corrose da tagli, graffi, poiché amavi la lotta”. Che è come un consegnare “casa vuota” e vascello di “marmo” a un possibile cielo e alla nostra capacità di costruire mito. Davvero tre voci, per dirla con Lidia De Federicis, di alto e non comune respiro. Tre firme d’autore suggellate dalle parole in prosa e in versi di Joyce Lussu che intreccia la perdita di Bustianu con quella di Emilio: in cui non sei più/perché sei/dentro tante cose.
II
Ce ne passa prima che la storia diventi favola. Ma non nel senso che di solito viene dato a questo passaggio: un qualcosa di vero, nudo e crudo, da trasporre in termini sognanti. Qui è quasi tutto il contrario. Leggere un libro di Andrea Camilleri per rendersene conto. Camilleri non è solamente il commissario Montalbano. O, se si vuole, lo scrittore politicamente e storicamente impegnato. (Penso a La mossa del cavallo, 1999).
C’è un lato della personalità che viene rivelato da un libro che è a sua volta significativo della grandezza e del tormento di uno scrittore. Il libro in questione pubblicato alla fine del 2000 da Rizzoli, nella collana “La Scala”, è Biografia del figlio cambiato (267 pagine, lire 27.000, 13,94 euro).
Lo scrittore, drammaturgo e romanziere, tra i grandi del Novecento e di sempre, è Luigi Pirandello. La personalità rivelata è quella di un Camilleri che prima di essere autore di best sellers ha vissuto di teatro: mettendo in scena, come regista, molti personaggi. Forse in qualcuno c’era più se stesso di altri. Un se stesso che riflette il super io, un ego assoluto, tipico degli scrittori siciliani. Un se stesso che riguarda Pirandello più di altri ancora.
Da precisare, per la storia in questione, che il drammaturgo e il giallista-regista sono compaesani. Porto Empedocle infatti, luogo di nascita e di nostos di Camilleri, classe 1925, costituisce lo sbocco a mare di Agrigento, dove Pirandello venne alla luce (allora si chiamava ancora Girgenti) nel 1867. Una luce di mare e di zolfo, di interessi non corrisposti e di ripetizioni. Tutte parole che in questo libro assumono valenza duplice e triplice.
A seconda che lo zolfo, per esempio, stia a significare la fatica dei carusi che lo estraggono da sottoterra e lo caricano sulle navi oppure l’interesse vero e proprio intorno a cui ruotano le mire di don Stefano e la pazzia di Antonietta Portolano, rispettivamente padre e moglie di Luigi Pirandello.
Per quanto riguarda poi le ripetizioni, i contrasti e le riappacificazioni tra Pirandello e i suoi tre figli Stefano, Linetta e Fausto, non fanno altro che scambiare con la trama principale di questa storia: il dissidio tra Luigi, così lo chiama Camilleri, e suo padre. La vita come teatro o, ancora pirandellianamente, il gioco delle parti. È una biografia questa, narrata dal di dentro, costruita sull’affinità tra due uomini di teatro, per di più compaesani. (Non c’è parentela. Solo nonni e bisnonni ebbero in comune qualche commercio con u surfaru, lo zolfo). È la biografia di un cambiamento per lungo tempo atteso e cercato. Luigi vuole essere diverso dal padre.
Non vuole dipendere da lui. Vuole staccare la sua vita da quella del genitore cui pure somiglia. Molti i motivi: non ultimo la volontà di dominio che c’è in tutti gli atti di don Stefano. L’innesco però è la visione di un tradimento. Luigi adolescente vede il padre quasi consumare adulterio con un una sua cugina nella cappella di un convento sotto lo sguardo compiacente del priore, un loro parente. (L’ossessione dell’incesto è uno dei leit motiv della pazzia di Antonietta Portulano che arriva a credere il marito Luigi amorosamente legata alla figlia Linetta). Il tormento che ha accompagnato Pirandello per tutto l’arco esistenziale, lui che bambino ebbe più di un impatto brutale con la morte, è di mostrare finalmente di essere un figlio cambiato, diverso da quello che il padre voleva e pretendeva per lui.
Il racconto storico di Camilleri è sotteso da una favola, la stessa che la “criata” Maria Stella, “cammarera” ma grande affabulatrice, ripeteva a Luigi “piccriddro”. È la storia della madre che non accetta il figlio deforme. Sono le fate, le maghe cattive che glielo hanno messo dentro la culla. Il figlio vero, portato via, rubato, ritornerà un giorno o l’altro e avrà le sembianze di un principe, figlio del re. Una storia classica che deve aver ispirato, tra gli altri, un romanzo della svedese Selma Lagerlöf, contemporanea di Pirandello e anche lei premio Nobel: L’imperatore di Portugallia, pubblicato in Italia da Iperborea.
In Luigi, questa storia tesse frustrazioni e ossessioni. Vorrebbe lui essere, altro leit motiv, il figlio cambiato ma ce ne passa prima che lo diventi. In mezzo c’è tutto un arco di tempo dove la guerra, quella del ’15-18, succede alla pazzia a sua volta preceduta dall’inganno e dal disinganno, dalla grettezza del quotidiano che umilia il sublime dell’arte. Attori: Pirandello e la sua famiglia. Solo nel 1934, il 24 di marzo, due anni prima della morte, la storia diventa finalmente favola. Musicata da Gian Francesco Malipiero, La favola del figlio cambiato verrà rappresentata al Teatro Reale dell’Opera di Roma. Fu un insuccesso. Vennero giù fischi. Mussolini se andò via sdegnato. In Germania, dove pure Pirandello si era laureato, a Bonn, nel 1891, sempre di marzo, la favola venne addirittura proibita.
Fu giudicata opera “sovvertitrice e contraria” alle direttive dello Stato popolare tedesco. “Che ci vedeva di tanto sovversivo il nazismo?” si chiede Camilleri. “Forse che un imbecille sconciato potesse diventare il re di un paese del Nord al posto di un re bello e biondo, di razza ariana?” Il problema di questa biografia che si legge come un romanzo sta tutto nel tormento dell’individuo che oltre che con la famiglia i conti li deve fare con la Storia: con il suo essere indietro e inadeguata. Tutta la vita di Pirandello, rivela Camilleri, è all’insegna del disagio e del non adeguamento, Camilleri che, suo more solito, scrive intrigante e accattivante. Sa come mischiare siciliano e italiano e sa come e quando far prevalere l’uno sull’altro. Un libro, di mezzo c’è anche Sciascia, altro grande girgentano, che è una lezione.
NUMERO /2
Anno 2001, n. 2
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