Circa 98 milioni di elettori (il 49,2%) non hanno votato: una popolosa nazione di astenuti!
Ha votato il 50,8% degli aventi diritto (circa 102 milioni), in confronto al 49,9% del 1996 e al 55% del 1992. Nonostante la differenza del +4,2% tra il 1992 e il 2000, allora votarono solo due milioni in più di elettori (104 milioni); mentre la nazione degli astenuti in diciotto anni è passata (per effetto dell’aumento demografico) da 84 a 98 milioni!
Il carattere scarsamente partecipativo si accentua nelle elezioni federali, statali e locali non abbinate a quelle presidenziali: la partecipazione al voto scende sotto il 50% e può precipitare anche sotto il 30% degli aventi diritto. In un regime di “monopartitismo imperfetto” dove i due partiti dominanti si differenziano prevalentemente per il diverso peso dato alla spesa pubblica e ai diritti civili, dove non esiste una reale alternativa di progetto della società difficilmente nascerà e si alimenterà una reale speranza di cambiamento che spinga alla partecipazione.
Da un punto di vista democratico, occorrerà alla fine decidersi a considerare gli USA come una “Bulgaria alla rovescia” con il suo “normale” 30-50% di votanti e con il sistema maggioritario ormai arrivato all’assurdo per cui è una minoranza degli elettori a scegliere i governanti (compreso il Presidente). Infatti, la maggioranza di quel 30-50% di votanti corrisponde alla minoranza degli elettori.
Così, anche un Presidente che riuscisse a raccogliere il 100% dei voti espressi, avrebbe il consenso attivo al massimo della metà degli elettori; ma in realtà ogni vincitore deve accontentarsi di un consenso anche molto inferiore a quello di un terzo dell’elettorato!
Bill Clinton, nel 1992, con il suo “entusiasmante” 43% di voti ha in realtà avuto il consenso di poco più del 23% degli elettori (188 milioni), cioè il consenso di una “minoranza bulgara”.
George W. Bush, nel 2000, con il suo “sporco” 47% di voti ha in realtà avuto il consenso del 24% degli elettori (200 milioni), cioè il consenso di una “minoranza bulgara” (e non sarebbe stato diverso per Al Gore con il suo 47% di voti e qualche decimale in più).
È un paradosso a cui porta la “regola maggioritaria” se la democrazia non si sviluppa, se non mantiene le sue promesse, se si rinsecchisce, se diventa commercio e marketing.
Questa nota, nelle parti scritte in corsivo, è stata ripresa da Nuoro oggi, n. 1, giugno/luglio 1993. Al paradosso si è aggiunta la beffa: il presidente “bulgaro” George W. Bush è stato eletto nonostante abbia preso meno voti di Al Gore e sia dubbio che abbia veramente ottenuto la maggioranza dei Grandi Elettori.
Una democrazia in crisi?
In una intervista a Liberazione (9 novembre 2000), Lucia Annunziata affermava: “ ... mai come adesso la democrazia americana è efficace. In quel posto conta anche l’ultimo voto dell’ultimo barrio di Jacksonville”.
In primo luogo, se il voto del cittadino americano contasse veramente, bisognerebbe cercare di convincere anche l’ultimo astenuto dell’ultimo barrio di Jacksonville a votare e a rendere più efficace la democrazia americana; e comunque, riconoscendo la difficoltà di questo obbiettivo in ogni parte del mondo, occorrerebbe almeno rendere facile l’esercizio del diritto di voto invece di complicarlo con l’obbligo dell’iscrizione nei registri elettorali. In secondo luogo, nei sistemi a maggioritario secco, i voti vengono contati tutti, ma non contano tutti: ha valore l’ultimo voto di chi vince, ma non valgono niente tutti i voti di coloro che perdono.
Una grande lezione di comicità
L’eurodeputata Emma Bonino, a proposito dello scontro tra Al Gore e George W. Bush, ha fatto sapere ai giornali che quanto stava avvenendo negli USA era “una grande lezione di democrazia”; e ha aggiunto: è “straordinario che tutto avvenga nella calma, senza che nessuno accusi l’altro di essere delegittimato”. ... nella calma, senza che nessuno accusi l’altro di essere delegittimato!!
Straordinaria comicità!
I salti di Sartori
Un grande politologo, Giovanni Sartori, ha proposto (L’Espresso, 4 gennaio 2001) una interpretazione originale circa l’ultima elezione del presidente degli USA, che “è stata la più lunga e la più lenta del secolo”: l’elezione sarebbe stata inquinata dalla tecnologia “più che dai giudici”.
“Senza exit polls, senza computer e senza la sofisticazione statistica di un’età di alta tecnologia non sarebbe successo che nella stessa notte venissero annunziati due vincitori dati e presi da tutti per certi”.
Dunque, primo colpevole “l’ansia di anticipare” il risultato. “Il secondo colpevole tecnologico della vicenda è la macchina che registra i voti”. Ma gli exit polls, la statistica sofisticata e il conteggio meccanico dei voti non sono comparsi per la prima volta in queste elezioni; nel passato hanno decretato vittorie e sconfitte senza grossi problemi.
Dunque, non possono essere invocati come colpevoli solo quando è incerta un’elezione. Un ulteriore svolgimento di questa linea interpretativa è che il conteggio meccanico è obbiettivo, mentre quello manuale è soggettivo e non sicuramente imparziale.
Ma il problema è che proprio il conteggio meccanico (arcaico e impreciso) ha messo in evidenza che non basta votare per il candidato: è decisivo votare in modo tale che la macchina possa contare il voto espresso. Non basta fare un foro, bisogna fare un foro d’autore!
Perché mai il modo di leggere il voto deve essere più importante del voto stesso? Perché invocare l’oggettività di un conteggio meccanico, se è aleatorio e impreciso?
Ancora: in questa vicenda è venuto alla luce un altro aspetto discutibile del modo di votare americano, cioè la mancanza di uniformità. Ogni Stato e persino ogni Contea può avere un proprio regolamento elettorale.
Ma allora dove va a finire il principio della “equal protection” (garanzia di imparzialità) posta alla base della sentenza della Suprema Corte per negare il conteggio a mano dei voti?
Il Professore scrive che per il conteggio a mano “occorrono istruzioni precise e uniformi”, mentre “nelle varie Contee della Florida i criteri di riammissione dei voti contestati erano incerti e diversi”.
Ma perché pretendere “istruzioni precise e uniformi” solamente per il conteggio a mano?
Il principio di garanzia deve essere invocato per tutte le fasi dell’elezione, diversamente il suo richiamo è strumentale.
A beneficio delle proprie argomentazioni Giovanni Sartori si permette di essere “impreciso” e fuorviante. Infatti scrive che “se il nome del presidente non era perforato, l’intenzione poteva essere desunta da come l’elettore aveva votato nelle altre votazioni”. In realtà per la riammissione dei voti non si è mai parlato di schede non perforate, ma di schede perforate in modo non leggibile dalla macchina. Tra queste ultime c’erano schede ben forate, ma con il coriandolo attaccato.
Le conclusioni del “politologo dei due mondi” trovano conforto più nelle sue convinzioni ideologiche che nelle sue contorte argomentazioni. Infatti conclude che non è successo niente!
“La verità è che in questo pasticcio la legalità ha funzionato e che la tanto strombazzata crisi costituzionale non c’è stata”. Insomma Giovanni Sartori è per passione ideologica più realista del re. Sembra più vicina alla realtà l’opinione che il presidente è stato comunque eletto, ma che la crisi costituzionale c’è stata. Il nodo di Gordio è stato tagliato non con il rispetto della legalità, ma con una decisione politica che come tale può essere accettata o respinta.
Forse a Giovanni Sartori basta salvare le sue (“strombazzate”) certezze ideologiche, ma al popolo americano serve una democrazia migliore.