Tale verso dà anche il titolo al libro che rappresenta la raccolta dei suoi scritti.
È sempre d’aiuto avere dei riferimenti letterari lucidi pur se non risolutori o consolatori. Così pure avviene che sia necessario od utile rivisitare non solo versi ma anche racconti, saggi, romanzi, film, musiche, immagini, paesaggi…un frammento di ciò che ha formato la nostra coscienza critica o il nostro essere attraverso lente e costanti stratificazioni più o meno coscienti.
Talvolta i frammenti riemergono invece all’improvviso senza necessità di frugare nella memoria e sono come un bagliore, un lampo che nel buio illumina gli oggetti, purtroppo spesso troppo velocemente senza consentire la chiarezza della visione dei contorni ma lasciando solo quella sensazione di lucida intuizione dell’insieme anche se forse accompagnata da incapacità di analitica spiegazione.
È accaduto così al verso della poesia di Dorothy Parker, ripresentatosi senza sollecitazioni alla mente, in un momento di particolare sgomento nei confronti del mondo circostante, che ha avuto questa funzione, non illuminante forse, ma certo di stimolo ad una riflessione meno superficiale nei confronti di una realtà sentita ipocrita e menzognera.
Non può essere considerato diversamente infatti un mondo in cui le notizie e i fatti e le dichiarazioni di continuo si alternano in balletti di mezze verità e bugie, inganni e false rivelazioni, coperture e spostamenti di fuoco, funzionali, di volta in volta, alla dimostrazione di presunte verità e principi, oppure alla mistificazione di interessi o vantaggi di particolari gruppi, quando non addirittura così smaccatamente ipocriti da far passare gli uni e gli altri agli occhi di tutti come forme di sollecita premura verso il bene comune.
A voler prestare attenzione, in realtà compito doveroso di vigilanza da parte di tutti, assolutamente non demandabile, e a non lasciarsi distrarre di continuo dalle attrazioni consolatorie e narcotizzanti dei divertimenti (divertimenti nel senso etimologico del termine, dal latino divertere = allontanare, distogliere) televisivi e non, è facile rendersi conto di quanto siano fuorvianti, ad esempio, i dibattiti estenuanti sulla mucca pazza e sull’uranio impoverito, ma basta leggere o ascoltare quotidianamente le notizie per trovare una infinità di altri esempi simili, rispetto ai reali problemi dei quali questi non sono altro che la naturale conseguenza.
Non è possibile infatti che non si capisca, se l’analisi e la visione dei fatti e delle cause siano corrette ed oneste, come il discorso si accentri sulla manifestazione della malattia anzi che sulla malattia stessa, e come ciò significhi che si stia navigando a vista, senza un reale orizzonte prospettico, quadro di riferimento assolutamente necessario alla vivibilità dell’esistere, naturalmente se interessa che tale vivibilità venga raggiunta.
E che di malattia del mondo e della umanità si tratti è di per sé evidente nel momento stesso in cui si accettano come fatti ineluttabili: 800 milioni di affamati, 50 milioni di esseri umani costretti a spostarsi forzatamente dai loro paesi per motivi politici o sociali, decine di guerre con annessi stupri, violenze, torture, pulizie etniche, genocidi, e quant’altro la fantasia perversa riesca ad immaginare.
Ma se non si vuole continuare su questo fronte, perché magari lo si considera un inevitabile scotto da pagare alla “civilizzazione”, per decidere se si tratti o no di malattia, si può provare a riflettere sui problemi ecologici, sono sufficienti anche quelli più noti e comunemente trattati dai media (effetti globali negativi sul clima della terra, attacco dei gas alla zona stratosferica dell’ozono, riduzione delle risorse vitali quali foreste ed acque, riduzione delle biodiversità, sbilanciamento dell’ecosistema, resistenza dei germi agli antibiotici, desertificazione etc…).
Ma, per cercare conforto e tentare di non essere catastrofici ed apocalittici nella descrizione dei mali, si può ancora cambiare punto di osservazione ed affermare ad esempio che però i vantaggi derivanti dalla globalizzazione dei movimenti di capitali, del commercio di beni e servizi porteranno rapidi progressi e benessere diffuso soprattutto per le popolazioni più deboli e cercare di non accorgersi che questo modello unico pervasivo di benessere risulta essere vissuto proprio da loro come una minaccia alla propria specificità culturale e identitaria e considerato come una imposizione della solita arroganza del più forte.
Naturalmente questo è solo un piccolo accenno del possibile elenco di problemi, d’altronde sotto gli occhi di tutti, di coloro i quali vogliano naturalmente vedere, ma forse è sufficiente per avere una idea della gravità del male e di quanto si sia responsabili sia della disattenzione sia ancor peggio della rassegnazione e dell’indifferenza.
Ecco allora che il problema dell’uranio impoverito, per riprendere l’argomento accennato precedentemente, peraltro molto sentito anche in Sardegna, e il dibattito sui tragici effetti di questa sostanza non sono altro che l’ennesima confusione tra il dito e la luna. Si continua a spostare il fuoco sul dito per non vedere la luna e noi allocchi guardiamo quel dito, seguitando a dimostrarci sciocchi ed incapaci a ragionare con la nostra testa.
Per alcuni giorni le notizie sulle morti dei giovani soldati hanno occupato pagine e pagine dei nostri quotidiani, accompagnate da analisi e dissertazioni ora di ordine scientifico, ora sociale, ora persino polemico sulla trasparenza dell’informazione e sulla chiarezza dei rapporti con gli stati alleati.
Ogni tanto, per rabbonire la coscienza, non mancavano neppure riferimenti alle terribili conseguenze nelle popolazioni e nei paesi vittime di quelle bombe, ma ad essere sinceri la sensazione era che questi in realtà fossero solo oggetti fuori posto da rimettere in ordine, perché tutto tornasse ad essere sotto controllo e si potesse quindi procedere come prima. Altre urgenze ora impongono lo spostamento dell’attenzione e nuovamente altre dita si frappongono ad impedire ancora la visione della luna.
Altre morti ed altre catastrofi faranno dimenticare le precedenti in un perverso gioco il cui senso è dato solo dall’attimo dell’accadimento. Il processo di insignificanza viene compiuto in tempi più o meno brevi, a seconda della funzionalità. La destorificazione della morte (politica, patriottica, commemorativa, come ad esempio è avvenuto proprio nel caso dell’uranio impoverito) e quindi la sua risoluzione culturale comporta sempre, con lo spostamento da un fatto storico preciso ad un evento giustificato culturalmente, il restituire alla morte la massima insignificanza, comporta l’“essere in preda ai vivi”, per usare una espressione di Sartre. Coperto dalla retorica delle giustificazioni culturali, non si sente più l’urlo di rabbia di dolore che solo darebbe valore a quelle morti, l’atto d’accusa che rappresentano per il solo fatto di mostrare la nostra inciviltà.
Indecenti e incivili non sono quelle morti per le conseguenze di armi poco pulite, ma le guerre con qualunque arma attuate, anche le più intelligenti, ipocritamente definite umanitarie. Tali morti, ma anche tutte le altre ancora, coatte, violente, immature, indignano per la loro inciviltà che consiste proprio nella loro non naturalità.
Allora, se così ci piace o se questo è l’unico mondo che riusciamo ad immaginare, “tanto vale vivere” con la falsità filistea che tutto imbianca, continuando a guardare il dito e privandoci della sublime visione della luna, perché indegni di meritare anche una morte come quella di Ivan Iliìc, capace infine almeno di svelare l’inganno e concedere la giusta solennità all’atto estremo.