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A cinquant'anni dal I° Congresso del Popolo Sardo
 
Ci sono momenti della storia isolana ingiustamente caduti nel dimenticatoio della memoria, oscurati dalle spesso insignificanti convenienze della politica quotidiana, quella che al richiamo alle forze ideali e spirituali preferisce il piccolo cabotaggio e il tatticismo esasperato.Poco o nulla si è fatto per ricordare uno dei momenti di maggiore partecipazione popolare che la storia sarda abbia mai avuto, del quale furono protagoniste importanti masse (usiamo questo termine che oggi anche a sinistra appare ormai un tabù) di lavoratrici e lavoratori isolani, impegnati a fornire il loro contributo in termini di idee e di elaborazione politica per favorire il rilancio economico della Sardegna. Quell’evento fu il “Congresso del Popolo Sardo” del 1950.
Il 6 gennaio del 1950 le tre Camere provinciali del lavoro della Sardegna (Cagliari, Nuoro, Sassari) deliberarono la convocazione di un convegno, da tenersi nei mesi successivi nel capoluogo isolano, in cui discutere in maniera ampia e popolare intorno ai problemi e alle croniche carenze economiche dell’isola, elaborando le misure necessarie per superarle. Fu in occasione di questa assise che venne pensato in maniera specifica quello schema di piano organico di cui parlava l’articolo 13 dello Statuto Speciale (unico testo costituzionale dove era contenuta la parola “piano”).
L’iniziativa nasceva sulla scia dell’elaborazione che la Cgil nazionale andava elaborando proprio in quei tempi, con la formulazione del cosiddetto “Piano del Lavoro”, strumento per favorire un rilancio dell’economia nazionale unitamente all’obiettivo del miglioramento delle condizioni dei lavoratori italiani, prostrati dalle conseguenze delle difficoltà postbelliche.
Un comitato promotore insediatosi agli inizi del 1950 riuscì ad organizzare nell’isola ben trentun convegni zonali e di categoria, con un’ampia partecipazione delle forze sociali, dei lavoratori, dei politici, e degli amministratori locali.
Tra il 6 e 7 maggio 1950 si tenne a Cagliari, nel Teatro Massimo, il “Congresso Regionale per la rinascita economica e sociale della Sardegna”, con mille delegati eletti nei convegni preparatori e la partecipazione di oltre tremila invitati (significativa fu anche la presenza di delegazioni dalla penisola, tra le quali si possono ricordare quelle delle officine “Galilei” di Firenze o le varie Camere del Lavoro di città come Bologna, e Ferrara).
Questo congresso fu il primo del secondo dopoguerra, (si deve ricordare che tra il 10 e il 15 maggio 1914 si era tenuto a Roma il “Congresso di Castel S. Angelo” un momento di importante riflessione intellettuale sullo stato dell’isola alla vigilia della Prima Guerra Mondiale, “una sorta di Stati generali della Sardegna”, per usare le parole di Manlio Brigaglia).
L’iniziativa venne realizzata quasi esclusivamente sotto la direzione delle forze dell’opposizione socialista e comunista, con l’assenza pressoché totale della Giunta Regionale, anche se vi parteciparono a titolo individuale intellettuali e studiosi vicini alla maggioranza centrista Alla Presidenza del Congresso sedevano uomini come Lussu, Foa, Longo, Amendola.
E il discorso introduttivo venne formulato proprio da Emilio Lussu, che si richiamò al carattere di iniziativa popolare dell’assise, nella quale erano presenti e riuniti uomini anche lontani fra loro per appartenenza ideologica ed esperienza politica, che avevano però deciso di affiancare la loro competenza e il loro impegno alla lotta per individuare e debellare le cause specifiche dei mali della Sardegna. La relazione più significativa fu senza dubbio quella di Renzo Laconi. Laconi mise in evidenza nel suo intervento il basso livello di vita della popolazione, l’arretratezza dei sistemi di pr possibilità di un riscatto alle prospettive di una organica riforma fondiaria attraverso l’eliminazione del latifondo, e ad una profonda evoluzione tecnica e culturale dell’agricoltura e della pastorizia, con la successiva elaborazione di un “Piano di Rinascita” concepito non come un semplice piano d’opera, ma come un vero e proprio programma di intervento economico generale ed unitario dello Stato e della Regione in tutti i settori dell’economia.
Nell’intenzione dei promotori del Congresso era evidente il tentativo di legare in maniera indissolubile la riscossa economica dei sardi alle esigenze della comunità nazionale, rifiutando l’impostazione sostanzialmente assistenzialistica della contemporanea Cassa per il Mezzogiorno.
Certo si dovrebbe riflettere sugli sviluppi successivi della storia autonomistica, comunque sempre legati all’attivazione del piano di rinascita, con le difficoltà degli anni sessanta, per arrivare poi alla sua rielaborazione del 1974. Ma questo è un altro problema. Ciò che rimase e rimane del “Congresso del popolo Sardo” fu la straordinaria impresa di organizzare un incontro a carattere unitario che comportasse una riflessione sui mali dell’isola e sulle possibili cure.
Non fu certamente facile sviluppare una visione così alta e disinteressata in un momento storico di così grande tensione politica (proprio quel 1950 fu uno dei momenti di più alta contrapposizione tra le forze del governo e le sinistre, a cui si aggiungevano le tensioni internazionali della “Guerra Fredda”). Chi sarà eletto al prossimo parlamento nazionale in rappresentanza della Sardegna, provi a rileggersi la storia di quel convegno (peraltro si deve ricordare la difficoltà di reperirne gli atti, di cui sarebbe utile approntare una ristampa con apparato critico).
Il suo impegno di parlamentare sarà sicuramente ispirato ad una maggiore coerenza e tensione morale. N
NUMERO /1
Anno 2001, n. 1
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