C’è chi già pregusta (in virtù di una vittoria elettorale che, per quanto appaia certa in questi sondaggi autunnali, deve essere ancora avallata da un responso elettorale) di compiere un’operazione di vera e propria epurazione culturale nei confronti di “presunte deviazioni marxiste” presenti in alcuni manuali di scuola superiore.
Un attacco che lede principi costituzionali fondamentali (art. 33 della Costituzione) e palesa, inoltre, una ignoranza evidente intorno alla produzione storiografica italiana, poiché trascura l’importanza della storiografia cattolica (di cui si possono citare validi esponenti come Scoppola, Traniello e De Rosa) e di quella laica (per citare alcuni nomi tra i più noti, Colarizi, Galasso, Sabbatucci).
Ed è sicuramente strano che siano i sostenitori del liberismo economico, che dovrebbe sempre premiare il mercato contro lo statalismo economico, a chiedere l’intervento del potere pubblico per limitare la competitività e lo strapotere di vendita dei libri di storia cosiddetti di “sinistra”.
Controllare l’istruzione e limitare le libertà d’insegnamento dei docenti: i regimi totalitari del Novecento hanno sempre individuato nell’assoggettamento totale della cultura alla loro politica uno dei pilastri dei loro stati antidemocratici. Voglio ricordare un esempio che mi pare emblematico. Nella primavera del 1938 una maestra elementare nuorese, Mariangela Maccioni Marchi veniva sospesa dall’insegnamento per la sua attività antifascista. Tra le sue colpe principali, quella di non aver spiegato alle sue alunne di sei anni (un età in cui francamente è difficile capire la politica) l’importanza del fascismo e la grandezza di Benito Mussolini.
Mariangela Maccioni (che aveva sposato il noto intellettuale nuorese Raffaello Marchi nel 1935) era nata a Nuoro nel 1891. Figlia di un maestro elementare, aveva visto morire negli anni immediatamente successivi al primo conflitto mondiale il padre e i due fratelli, circostanza che l’aveva portata a legarsi maggiormente all’anziana madre affetta da cecità.
Mariangela Maccioni non esercitava soltanto il suo ruolo di maestra con una passione e un rigore intellettuale che la portava ad avvertire l’esigenza di ampliare i suoi orizzonti culturali anche all’esterno dell’ambiente isolano, ma si interessava anche della vita politica, manifestando con coraggio il suo netto antifascismo.
Fu la sola insegnante e forse l’unica donna nuorese a firmare la sottoscrizione per Matteotti, in seguito all’assassinio del deputato socialista da parte del fascismo nel 1924 (cosa che gli comportò sempre, nei documenti della polizia segreta fascista, la qualifica di “sottoscrittrice pro Matteotti”).
Del resto, per tutto il ventennio avrebbe dovuto sopportare le angherie e i soprusi dei fascisti, i quali avevano preso l’abitudine di controllarne la corrispondenza, di seguirne gli spostamenti e le amicizie, di interrompere le sue lezioni a scuola, fino ad arrivare ad arrestarla nell’aprile 1937. Soltanto la fine del fascismo portò la maestra Maccioni a riacquistare il suo posto di insegnante, nel marzo 1944. Morì nel 1958, ma la sua memoria e il suo insegnamento furono coltivate dal marito, che le raccolse nel volume “Memorie politiche”, edito dalle edizioni Della Torre.
La figura di Mariangela Maccioni rappresenta un valido esempio di coraggiosa opposizione ad uno stato che voleva imporgli di insegnare non secondo la sua coscienza di educatrice, ma seguendo i crismi del pensiero unico e non criticabile. Non si possono avallare operazioni come quelle di chi cerca di portare avanti un così spregiudicato “uso pubblico della storia”.
E in questo caso sono gravi le responsabilità della sinistra politica e culturale, che ha avuto bisogno dell’antifascismo quando questo gli serviva per la sua legittimazione nel trentennio successivo alla Liberazione, liberandosene successivamente, una volta caduti gli steccati ideologici e definitivamente tramontato il pericoloso quanto esplosivo clima della guerra fredda. Nella nuova e bella politica che molti sognano ingenuamente di costruire, la tematica antifascista-resistenziale ha dunque perso molto del suo appeal, circostanza che ha favorito l’emergere impetuoso di molte teorie revisioniste, tutte tese a dimostrare le ragioni anche dei repubblichini di Salò, a sminuire il ruolo dell’antifascismo, a sovradimensionare un fenomeno da studiare ma non da portare a paradigma di presunte aberrazioni antifasciste come quello delle foibe (un’analisi articolata e approfondita della necessità di contrapporre a questo revisionismo parziale e privo di serietà una storiografia scientifica ed equilibrata, si trova nel volume Fascismo e antifascismo.
Rimozioni, revisioni, negazioni, edito quest’anno da Laterza, con contributi di specialisti del calibro, solo per citare due tra i più famosi, di Claudio Pavone ed Enzo Collotti).
In Italia c’è bisogno di una storiografia seria, che abbandoni le visioni retoriche e condizionate dai partiti, evidenziando tutti gli aspetti dell’antifascismo, compresi i limiti e le incongruenze, ma che allo stesso tempo sappia respingere chiunque tenti di cancellare la problematicità e le sfumature della dinamica storica a favore di messaggi semplici e rassicuranti.
L’Europa è nata sul rifiuto del nazismo e del fascismo, e questo è un giudizio che nessuno storico potrà mai revisionare. Si parli pure delle foibe; ma sarebbe ora che si ricordassero anche pagine ancor più gravi e grevi della storia italiana, come la politica antisemita del fascismo (troppo spesso è passata la falsa immagine di Mussolini “razzista riluttante”, che avrebbe emanato le leggi del ’38 solo per far piacere a Hitler), o i genocidi compiuti dagli italiani nelle colonie africane, su cui si è sempre taciuto, alimentando il mito del “colonialismo buono e generoso degli italiani” (si leggano in proposito gli studi del più importante specialista italiano della storia del colonialismo italiano, Angelo del Boca).
Nessuno potrà mettere in discussione il fatto che l’antifascismo sia stato, nel Novecento, uno dei momenti in cui moltissime donne e uomini abbiano lottato con maggior forza per la democrazia e la libertà.
In cui una “maestra resistente” come Mariangela Maccioni Marchi, al direttore fascista che voleva imporle di magnificare Mussolini nelle sue lezioni, rispose che lei non aveva paura delle minacce “perché io non temo chi può uccidere il mio corpo, ma chi può offendere il mio spirito”.