Eravamo a Gavoi, domenica 29 ottobre, mia moglie e io, per la manifestazione di solidarietà ai pastori promossa da “Sa Domo” e dal comune di Gavoi. C’eravamo perché siamo soci di “Sa Domo”, e perché siamo amici di Giginu Muledda, che è l’anima di “Sa Domo e ha scritto l’accorato appello in quasi versi “Pastores semus tottus”, ma, soprattutto perché anche noi, come tutti i sardi, siamo pastori o figli di pastori, e il nostro mondo è sofferente e ha bisogno oggi per urlare anche della nostra voce. Le voci erano tante. A cominciare da quella di Benito Urgu, magnifico nel suo virtuosismo vocale e affettuoso con le sue barzellette come chi, al capezzale di un caro congiunto sofferente, cerca di farlo ridere.
Tutte le motivazioni della manifestazione e della sofferenza collettiva sono state espresse magnificamente da Piero Marras, che ha letto – cantato l’appello in versi “Pastores semus tottus”, accompagnato dalla sua musica sarda; dalla lettura - canto è passato al canto vero e proprio fino al suo “Su Babbu mannu”, cantato a singhiozzi, angosciato, come la preghiera di un’agonia dolorosissima, e tornando ogni tanto al “Pastores semus tottus! Semus tottus pastores!” detto ogni volta con più enfasi e con più dolore, come in un “ammuttando”. La canzone è conosciuta, ma la sua esecuzione a Gavoi era così accorata da renderla nuova, inattesa. “Azudanos”, l’invocazione al padre, lanciata da una terra arida, dove la vita non ha valore, sembrava davvero giustificata da un dolore così straziante da non poter sperare lenimento alcuno se non nell’intervento divino.
Dopo Piero, Elena Ledda, accompagnata da una chitarra inarrivabile, ha cantato una intensa preghiera e un “ballu”, che sembrava eseguito sui carboni ardenti di una pena ossessiva. Poi il saluto breve e commosso del tenore di Oniferi, che non ha cantato, poi il tenore giovane di Bitti, poi …e poi…altri, tanti, meno male, tutti chiaramente coscienti che la loro stessa arte rischia di non avere significato se muore il mondo che l’ha partorita e la alimenta. Perché è vero che pastores semus tottus. Noi sardi. Chi non sa di essere pastore o figlio di pastore, o non vuole essere, non sa o non vuole essere sardo.
Potrebbe anche aver ragione. In fondo, che cosa cambierebbe per il pensionato, per lo stipendiato, per il commerciante, che comprano tutto ciò che mangiano, se anche morissero tutte le pecore e non ci fosse più un pastore in Sardegna? Non sarebbe forse più tranquilla la campagna sarda, se non ci fossero questi pastori prepotenti e impresentabili a intimidire gli esperti, gli ecologisti appassionati, gli amanti della natura. Verrebbero i turisti e gli imprenditori. Sarebbe un paradiso. E che cosa vuol dire, poi, questo voler essere sardi, questo inseguire gli archetipi travolti dal progresso? Non è forse meglio per tutti imparare l’inglese dei serials americani, diventare cittadini del mondo, cantare le canzoni alla moda, mangiare i cibi dei Mc Donalds, sani, puliti, igienicamente controllati, a poco prezzo? Si può essere uomini migliori se non si è legati a una terra vecchia, arida, sconvolta, e a una cultura povera, soffocata, residuale, come si possono coltivare sotto vetro fiori e ortaggi bellissimi, senza vento e senza neve, a temperatura e umidità costanti coi soli artificiali, e forse un uomo senza caratteristiche particolari, alimentato da una cultura universale, è anche più bello, come spesso lo sono i fiori e gli ortaggi delle serre, dell’uomo cresciuto nelle asperità, che spesso è ignorante e aspro.
Quelli che hanno cantato e suonato a Gavoi non ne erano convinti, come non lo eravamo quanti stavamo a guardarli e sentirli. Meno male che molti continuiamo a trovare più saporita la mela piccola, bitorzoluta e odorosa rispetto a quella bella, lucida di paraffina che spicca nei negozi. E ricordiamo che le cose naturali si sono sempre ammalate e forse sono buone perché figlie di milioni di tentativi e di sofferenze. Come sappiamo che la pecora sarda, minuta, tisica, bronchitica, resiste da millenni in pascoli impossibili a malattie ricorrenti, sfamando il nostro popolo, che è la guida dall’eneolitico ad oggi.
Ma allora perché i veterinari sardi non riconoscono una malattia che i loro colleghi della Corsica hanno subito riconosciuta e vinta? Perché i vecchi ricordano che la malattia nuovissima ha infierito anche altri tempi e causato perdite, ma non ha fatto cadere il mondo, se è vero che i pastori bucavano la lingua blu e la cospargevano di sale e salvavano la gran parte del gregge, e i veterinari non lo sanno? E che bisogno c’è di bloccare l’esportazione della carne, se è provato che non c’è alcun pericolo per la salute umana se si mangia la carne delle pecore con la lingua blu? Che bisogno c’è di urlare al mondo che la pecora sarda è condannata, se non si vuole che questo avvenga, se non si vuole che nelle macellerie i clienti rifiutino la carne ovina? Perché si sono usati disinfestanti chimici proibiti in pascoli e colture dedicati alla produzione biologica? Perché si sta cominciando a dire che le nostre pecore stanno subendo una nuova forma di “gaddighinzu” che le renderebbe immangiabili e le condannerebbe definitivamente? Perché politici e giornalisti sardi si sono precipitati a dire che era sicuramente un sequestro di persona quello che appariva da subito una farsa, forse anche dolorosa per il protagonista che l’ha inscenata, ma una farsa, e si è subito ripreso a urlare che abbiamo la criminalità nel sangue e a frugare tutti gli ovili? Perché si è detto, subito dopo che la farsa si è rivelata, che, comunque poteva essere un sequestro, quando in Sardegna non si verifica un sequestro da sette anni? E perché da quel giorno c’è un blocco di polizia ogni venti chilometri? E perché…?
Forse quello delle pecore è un gaddighinzu nuovo e sconosciuto, ma quello delle persone, mi sa, è quello che conosciamo da sempre. Questa abitudine di parlar male di noi stessi, questa furia di flagellarci, di chiedere scusa a chi ci insulta, è gaddighinzu.
Forse non ci sentiamo tutti pastori, o figli di pastori, e, di conseguenza, non crediamo che il nostro mondo sia in pericolo, solo perché gaddighinosos semus belle tottus.
Avrei voluto leggere a Gavoi questa preghiera che ho scritto tanti anni fa. Verrà giusta per Natale.
Deus meu, peri si pacu est
cust’anzoneddu adicau
chi m’ana lassau sa siccagna
s’astragu e su ventu
e custu punzu ’e castanza
chi at bintu at su ventu mastru
e custas muras de pane
granos de tridicu orte
creschios i’su disisperu
azzettaelos che bonoso.
Zertu nois de su presepiu
regalande a izu vostru
no’ semus sos pius riccos
mancu ’e sos pastores
ma vois iscìes pruite
babbu nostru istimau
vois chi nos azes provau
chin tottu sa orza vostra
ocannu e dae medas annos
vois l’iscìes chi est tottu
su pacu ’e bonu lograu.
Azzettaelu che bonu.
I’sas lampadinas de s’arvule
peri sos carros armaos
sos missiles atomicoso
sas vettureddas de pratta
su pizzinnu sardu at postu
unu carrittu ’e erula
chi’su juvittu ’e muriscu.
Est su pizzinnu arthuddiu
nighedduzzu e romasu
chi nd’at frigonza a astringhere
a regalare a izu vostru.
Est su chi est i’su cuzone
rosicandesi sas ungias
a punt’a pianghere.
Achieli coro vois
chi a nois no’ nos credet
nazeliu vois
chi de tottu su presepiu
sos pius poveros sunu
izu vostru e isse.