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Attualità di Penelope
 
Il corto-circuito tra realtà e narrazione, per cui la letteratura imita così bene la vita da confondersi con essa, non è dato dalla somiglianza di fatti o azioni, quanto piuttosto dal riconoscimento dei meccanismi di costruzione della realtà, tanto che la descrizione di un personaggio finisce per renderlo vivo, per farcelo riconoscere come simile a noi.
Per uno scrittore creare un personaggio significa costruire un carattere dotato di tale coerenza, se è un bravo scrittore, da rimanere impresso e diventare caro come un amico di cui si sente l’affinità.
Spesso per noi dipanare le trame della nostra coscienza significa ricostruire un’identità che sentiamo come estranea, una volta che l’abbiamo oggettivata attraverso il linguaggio, e abbiamo creato un ritratto fatto di parole proprio come accade ai personaggi dei romanzi, che nelle parole esauriscono la loro vita. Da secoli ormai il linguaggio ci ha fornito i mezzi per indagare la nostra interiorità, da quando Seneca poteva utilizzare la metafora del vindica te tibi, per richiamare potentemente alla coscienza il valore assoluto dell’individuo.
Ciascuno di noi, insegnava il filosofo a Lucilio, è insieme padrone e schiavo di se stesso: affrancati quindi da te stesso, riprenditi la tua libertà interiore, è l’insegnamento che arriva fino ai nostri giorni.
Ma per noi la coscienza è ormai frantumata e la ricostruzione dell’identità è un processo doloroso e probabilmente senza fine, senza maestri e senza scampo, come avviene negli splendidi personaggi di Dostoevskij, così ricchi di oscurità a di silenzi che turbano più delle persone vere.
Il piacere sottile della lettura consiste proprio nel meccanismo di identificazione tra lettori e personaggi, che permette di oltrepassare il divario di tempo e di spazio, stabilendo una comunicazione con altre epoche o altre culture.
Di fronte all’Odissea, la fascinazione che sprigiona dal testo, vecchio ormai di 2.800 anni, è accresciuta dalla familiarità che abbiamo per uno dei cardini della cultura occidentale e, a una lettura più attenta, per il talento dimostrato dall’ignoto compositore del poema che ha saputo creare, tra gli altri, un ritratto di donna dotato di una così forte coerenza artistica da resistere nei secoli e su cui noi ci basiamo per comprendere la donna della Grecia antica.
Rimane nella memoria, con la tela che tesseva di giorno e disfava di notte, la figura di Penelope, la fedele moglie di Ulisse, che per vent’anni ha aspettato il suo uomo consumandosi per il dolore e l’ha potuto alla fine riabbracciare, ritrovando solo con lui l’ideale felicità del matrimonio. Forse Penelope ha poco in comune con noi, forse molto; certamente la grande capacità narrativa del poeta ha creato un ritratto di donna viva e reale, la cui identità, come accade del resto ancora oggi, si costruiva attraverso le relazioni che la legavano al mondo circostante: la sua posizione sociale, libera o schiava, il suo ruolo di figlia, moglie e madre, la sua capacità di rapportarsi agli altri, con intelligenza, dolcezza o tristezza, con tutto ciò che formava il suo carattere e che riconosciamo con più facilità raccontati piuttosto che accettarli consapevolmente se vissuti in prima persona.
Nell’Odissea Penelope tesse il sudario di Laerte, suo suocero, ma un’altra tradizione vuole che la tela servisse invece per il velo nuziale del nuovo matrimonio.
Questa notizia, tramandata nei secoli, riporta la vicenda nella dimensione fiabesca da cui ha preso origine: la sposa fedele con lo stratagemma della tela che non finisce mai di tessere, riesce a tenere a bada i cattivi pretendenti, fino al ritorno del marito che li punirà.
In questo breve resoconto della storia di Penelope e Ulisse, si trovano già gli elementi fondamentali della caratterizzazione del personaggio femminile nel poema: il poeta dell’Odissea costruisce intorno alla figura del folklore una rete di comportamenti in cui cadono in trappola gli ignari e brutali pretendenti. E i lettori con loro, se Penelope è rimasta l’esempio di moglie fedele dall’antichità fino ad oggi.
L’aggettivo ricorrente per indicare Penelope è perifron, saggia: Penelope è scaltra e astuta come il marito e capace come lui di sopportare le disgrazie con animo fermo.
Queste virtù la distinguono tra le donne: “ …perché sulle donne tu eccelli nel volto e nella statura, e per la mente assennata” le dice uno dei pretendenti, elogiando la bellezza e le capacità intellettuali della donna, che si evidenziano nel modo perfetto in cui regge la casa.
Come moglie Penelope rappresenta la donna ideale per Ulisse: è come lui astuta, intelligente e dotata di grande forza d’animo, tutte qualità che la rendono cara al marito capace di comprenderne i più segreti pensieri: quando inganna i Pretendenti dichiarandosi pronta a sposarsi, senza sapere che ha davanti il marito travestito da mendicante, la reazione di Ulisse è di piena fiducia: “Cosi parlava (Penelope). Godette Ulisse costante, glorioso che doni chiedesse e incantasse il cuore dei principi con parole di miele, ma altro intendeva la mente.”
I due rappresentano l’ideale rapporto che deve esistere tra coniugi, come afferma lo stesso Ulisse: “non c’è bene più saldo e prezioso di quando con pensieri concordi reggono la casa un uomo e una donna”. La perfetta rispondenza tra i due caratteri rispecchia l’unità di un poema incentrato sull’eroe “dal multiforme ingegno”, che ha per sposa una donna dotata di grande intelligenza: Penelope, grazie alla sua saggezza, può aspirare alla gloria che è prerogativa degli eroi e che Ulisse ha conquistato a Troia: addirittura, caso unico nei poemi omerici, lei, una donna, viene paragonata al leone, l’animale regale per eccellenza, a cui vengono paragonati solo i più forti degli eroi.
L’intelligenza è anche quello che più l’attira in un uomo, sia pure uno dei Pretendenti, Anfìnomo, oppure il mendicante che si presenta alla sua porta (che naturalmente è Ulisse travestito): “Ospite caro, mai uomo altrettanto prudente, fra gli stranieri lontani, o più caro entrò in casa mia, come tu con sapienza dici parole tutte prudenti”.
Ma non è solo alle capacità razionali che Penelope si affida: molto importanti sono i sogni, che fa numerosi e che la mettono in contatto, oltre la superficie degli avvenimenti, con la realtà profonda delle cose. Nei poemi omerici i sogni sono mandati dagli dei che li sussurrano, librati sulla testa dei mortali addormentati. Penelope è consapevole di questa azione divina, la sfrutta per interrogare gli dei sulla sorte del marito e attraverso un sogno capisce che Ulisse è tornato:
“Sì, con me questa notte ha dormito qualcuno identico a lui, qual’era quando andò con l’esercito: e dunque il mio cuore godeva, perché non pensavo che fosse un sogno ma il vero”, stabilendo col marito, addormentato nella sala vicina, un contatto senza parole:
“…la sua voce piangente sentì Ulisse luminoso; e (nel dormiveglia) fu in dubbio un momento, gli sembrò in cuore che lei, già sapendo, accanto al capezzale gli fosse”.
Penelope è anche madre e lo è in un momento difficile per il figlio, il passaggio dall’infanzia alla vita adulta, il momento in cui si va incontro alla vita con tutte le sue difficoltà: quando Telemaco parte da Itaca per cercare notizie del padre, il dolore attanaglia la madre, un dolore definito “divoratore dell’animo”, perché consuma le viscere e può portare alla morte, come accade per la madre di Ulisse, morta per il rimpianto che aveva del figlio.
La figura di Penelope è resa alternativamente, a seconda delle esigenze della storia, in termini realistici o fiabeschi. Fiabesca è la bellezza che Atena le regala per ingannare ancor di più i Pretendenti, facendone uno strumento con cui la dea manovra la vicenda. Infatti lo scopo di Atena, la dea della sapienza, è proteggere il suo favorito Ulisse, il più saggio e astuto tra gli uomini.
Con un protagonista protetto da una dea, che nei suoi viaggi incontra numerose amanti, e che ha per moglie una donna ideale, l’Odissea si presenta come un poema in cui lo spazio dato alle donne è ampio e privo di connotazioni negative.
Ma non bisogna dimenticare il contesto culturale in cui il poema è nato: Penelope è moglie ideale perché corrisponde perfettamente al carattere di Ulisse, e la sua saggezza consiste nel sapersi sempre adeguare al suo ruolo.
Quando Telemaco diventa adulto può zittire la madre davanti a tutti e spedirla in camera sua, oppure spingerla a tornare dal padre perché si risposi; ed è solo grazie alla fedeltà nei confronti del marito che Penelope sfugge all’orribile fine riservata alle ancelle traditrici, impiccate davanti al palazzo. Tutti questi elementi aprono uno spiraglio sulla sottomissione alla volontà del padre, prima, del marito e del figlio poi, che comportava essere donna nella Grecia antica, e che il ruolo predominante assegnato ad Atena nella vicenda sembra contraddire.
Ma la dea ha caratteristiche spiccatamente maschili: non ha madre, nasce infatti dalla testa di Zeus e rimane vergine, non assolvendo quindi al compito fondamentale della donna, inoltre è una guerriera, in un mondo in cui la guerra è un’attività riservata agli uomini.
Un’intelligenza maschile, dunque, che si contrappone, nella cultura occidentale, a un sapere femminile tradizionalmente basato sull’irrazionalità: istinto, attenzione per il mondo onirico, saperi pratici legati all’esperienza della maternità. Con il mondo greco siamo all’inizio di questa tradizione e la loro letteratura, proprio perché antecedente alla creazione dello stereotipo, ci appare sincera nel proporre un’immagine della donna che è però, ricordiamoci, interamente plasmata dagli uomini.
Occorreranno secoli perché le donne possano opporre la propria voce a quella dominante, facendo uscire dall’ombra la loro figura, che appena si intravede dietro l’immagine di Penelope: un’immagine che il gioco di illusioni della letteratura rende così ideale e proprio per questo così lontana dalla realtà.
NUMERO /5
Anno 2000, n. 5
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